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L’ industria aeronautica saudita
Interessante considerazione del generale Mario Arpino
23-03-2021 - E’ sempre interessante scambiare opinioni, conversare con il generale Mario Arpino, già capo dell’Aeronautica Militare dal 1995 al 1999 e poi della Difesa, sino al 2000, su temi riguardo ai quali, nel corso della sua carriera, ha sviluppato numerose esperienze.
Dialogando con lui, abbiamo puntato l’attenzione sull’attuale situazione dell’industria aeronautica dell’Arabia Saudita; e ne è sorta una interessante intervista che pubblichiamo.
Generale, proviamo un attimo a uscire dal tragico filone del Covid-19 e cerchiamo di scorrere un po’ anche altre notizie.
Per esempio, c’è in atto da qualche tempo un campagna contro la vendita di armamenti a Stati o Nazioni belligeranti.
Il focus è puntato anche contro l’Italia, che avrebbe continuato a vendere armi all’Arabia Saudita, nonostante la guerra contro gli Houti nello Yemen sia in atto già da qualche anno. Si parla di produzione e vendita di semplici bombe per aereo, peraltro nella versione Houti, meno sofisticata, quelle a caduta libera, con dovizia di vittime civili. D’altra parte, sempre seguendo le notizie in rete, si parla dell’Arabia Saudita come detentrice di un’industria aeronautica con caratteristiche di avanguardia. Non le sembra un paradosso? Se davvero fosse così all’avanguardia, non andrebbe certo a comperare all’estero bombe di ferro…

In effetti, il 21 gennaio di quest’anno il governo uscente (dopo una risoluzione parlamentare di dicembre) ha annunciato lo stop di un grosso contratto per la fornitura all’Aviazione saudita di circa 20 mila bombe di aereo, stipulato tra Riyadh e la società AGI Rwm Italia del gruppo tedesco Rheinmetall. La società ha fatto ricorso, ma intanto la fornitura si è fermata a metà dell’opera. Decisione applaudita da una decina di Ong e da Rete Disarmo, che vedono in ciò un’applicazione precisa della legge 185 del 1990, che regola la materia vietando l’export verso i Paesi “i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani”. C’è chi invece si dispera, licenzia maestranze e ritiene che, di questo passo, l’industria italiana degli armamenti possa anche chiudere, perché, tanto, ad incrementare vendite e profitti saranno altri, per esempio i cugini d’oltralpe.
Polemiche a parte, apparentemente il paradosso che citato nel quesito apparentemente esiste. Ma è subito contraddetto dal fatto che l’Arabia Saudita ha fatto già da anni una scelta molto intelligente. Punta sull’alta tecnologia, cercando di produrre in proprio, per il momento ancora su licenza, mezzi complessi che producano quel vero salto di qualità al quale da tempo si sta preparando. Le loro strutture produttive non sono certo ridondanti e così hanno scelto di utilizzarle solo a questo fine, comperando direttamente all’estero (magari in cambio di qualche migliaio di barili) tutto ciò che, essendo di semplice manifattura, non sarà mai in grado di procurare valore aggiunto.
Un amico saudita dei vecchi tempi mi diceva: “Noi siamo giovani, sappiamo che il petrolio finirà ed abbiamo il dovere di guardare al futuro. Perciò, pur rimanendo fermi nelle nostre tradizioni, guardiamo all’Occidente come fonte di progresso tecnologico”. Questo personaggio apparteneva alla famiglia al-Saud, che sta applicando questa regola a partire dagli anni ’30, poco dopo la costituzione del Regno.


Però si legge anche che la SAMI (Saudi Arabian Military Industries), mira ad essere inserita entro il 2030 tra le 25 migliori società di difesa a livello mondiale…
E’ vero, ciò fa parte di una politica che non ha mai subito una battuta d’arresto, che investe sulle attività con maggior ritorno tecnologico e che, proprio per questo, cerca di far breccia utilizzando bene tutto il mondo aeronautico nel suo insieme, militare e civile. Molti lettori forse non sanno che il fondatore del Regno aveva pensato fin dall’inizio allo sviluppo dell’Aviazione come direzione da intraprendere e, guarda caso, aveva guardato proprio alla nostra Regia Aeronautica, che aveva poco più di dieci anni di vita, come moderno “modello d’impresa” da seguire.
Mitica, negli annali dell’Aeronautica, resta la visita al nuovo Palazzo Aeronautica del Principe ereditario nel 1935, visita che gettò le basi per l’addestramento in Italia di piloti e specialisti sauditi e la costituzione in Arabia di una Missione Aeronautica Italiana dal 1935 al 1939, quando fummo giubilati dagli inglesi, a loro volta soppiantati dagli americani.
Mezzi utilizzati, il “Caproncino”Ca.100 ed il trimotore bombardiere Ca.101. A chi si fosse incuriosito, consiglio di leggere “ALI NEL DESERTO”, scritto da Gregory Alegi ed edito dallo Sma nel 1994. Con l’Italia era stato dato l’avvio, ma i sauditi hanno sempre proseguito nel cercare di imparare da chi ne sapeva di più, ed ora sono giunti a un livello più che discreto.
Nello Yearbook del 2019 lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) classifica USA, Cina, Arabia Saudita e Francia tra I Paesi che hanno speso di più in rapporto al Pil per gli armamenti e la loro industria, valutando che insieme rappresentano il 60 per cento della spesa militare globale. Con l’8,8% del Pil in spesa militare, l’Arabia Saudita è in assoluto il Paese con il maggior onere nel militare, nonostante la spesa abbia avuto un temporaneo decremento del 6,5% nell’anno precedente.
L’obiettivo di SAMI, che ha la sede amministrativa a Riyadh (vicino all’aeroporto internazionale), ma quella tecnica e la fabbrica nei nuovissimi padiglioni dell’aeroporto di al-Kharj, ad un’ottantina di chilometri Sud-Est della capitale, con queste premesse è destinato (prima o poi) ad essere conseguito.


L’Arabia Saudita è competitiva con l’Occidente nella produzione di armi, di aerei? Sappiamo che vi sono stati momenti nei quali questo Paese ha occupato qualche spazio nella sua vita. Ci può fare qualche considerazione?
Certo! A causa di motivi strutturali per molti anni ancora non potrà essere competitiva, ma è destinata a crescere ed a conseguire entro la fine del decennio molti degli obiettivi che da anni si propone. Un po’, su scala molto diversa, come la Cina: da cinquant’anni, pur se con molti “stop and go”, pianifica, investe e puntualmente realizza. Se non ci sono implosioni interne (a carattere sociale?) potrebbe anche riuscirci. Anche la Guerra del Golfo è stata un’occasione che non si è lasciata sfuggire. Tre ricordi personali, per confermare la continuità dei propositi.
All’inizio di ottobre 1990, quand’ero appena arrivato a Riyadh come coordinatore nazionale in occasione della guerra del Golfo, nel quadro delle visite alle Autorità per illustrare i motivi della presenza nell’area del nostro Reparto Tornado, ero stato ricevuto dal principe Abdul Rahman bin Abdulaziz al-Saud, fratello del Re Fahad e viceministro della difesa e dell’Aviazione militare e civile. E’ lui che mi ha spiegato come i prodromi del futuro del Paese dipendessero molto dallo sviluppo delle attività legate al mondo aeronautico, dalla difesa al trasporto, dall’industria alla manutenzione, dall’elettronica al satellitare.
Dopo aver magnificato la capacità e l’efficienza della Royal Saudi Air Force e delle infrastrutture collegate, ha persino promesso il suo aereo executive per andarle a visitare. In conclusione, è passato poi ad illustrami gli intendimenti per lo sviluppo dell’industria e la formazione di tecnici e ingegneri. Ha anche manifestato apprezzamento per i programmi offset con Uk, Usa e Francia, che aveva appena accettato di reinvestire in Arabia nella misura del 35%. Ha auspicato di stabilire lo stesso rapporto anche con l’Italia.
Qualche giorno dopo, con il suo aereo personale, ero sull’aeroporto di Dahran, dove ho visitato il centro di manutenzione di secondo livello tecnico saudita per tutti i tipi di velivoli. Il personale di manutenzione era tutto locale, istruito negli Stati Uniti per l’F-15 ed in UK per il Tornado. Silenzio, ordine e pulizia, manuali in lingua originale e perfetta conoscenza dell’inglese, abituale lingua di lavoro. Là, ho capito ciò che il principe voleva farmi intendere: quelle persone erano il futuro “tecnico” del Paese. Una decina d’anni dopo, quando sono stato nuovamente invitato in Arabia Saudita in un nuovo ruolo, la base di al-Kharj era stata completata, e nei padiglioni gli specialisti locali svolgevano, ormai in semi-autonomia, la manutenzione di terzo livello (livello Ditta costruttrice) degli F-5 e degli F-15. Il futuro era a portata di mano.


Allora, il progresso c’è davvero?
C’è, ed è enorme. Vent’anni fa il loro primo astronauta aveva già volato. Altri dieci anni dopo la nostra Vitrociset, in joint-venture con una società locale e con personale saudita appositamente istruito, aveva in appalto la manutenzione di tutti gli apparati radar del loro sistema di Difesa Aerea. Oggi, possiedono il know-how di buona parte dell’elettronica di bordo e producono velivoli britannici su licenza. Tutto questo si chiama progresso, e tra qui e il 2030 c’è ampio spazio per proseguire. Occorre però volontà e tenacia, qualità che i sauditi illuminati hanno dimostrato di avere. Su tutto il resto di può discutere, ma non su questo.






Maria Clara Mussa
 
  


 
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