Accordi e trattati, come cambia la situazione internazionale
Intervista con il generale Giuseppe Morabito, sulla situazione attuale legata alle strategie in atto nella regione balcanica e mediorientale
fotografie di: cybernaua
20-01-2019 - La situazione dei Balcani è sotto la lente della geopolitica.
Ne parliamo con il generale Giuseppe Morabito, esperto per aver vissuto, quale ufficiale dell'Esercito Italiano, per anni la situazione nei Paesi di cui ora NATO, Unione Europea, Cina e Russia si stanno preoccupando.
Nei Balcani si sta svolgendo una battaglia per il controllo della regione.
Il trattato di Prespes sta mettendo in agitazione UE e NATO.
Che cosa dice esattamente il trattato? Come interpreta l’attuale situazione?
“Il 17 giugno dello scorso anno, la Grecia e l'ex Repubblica jugoslava di Macedonia (FYROM) hanno firmato un accordo, con il quale hanno provato a risolvere la disputa sul nome tra i due Paesi che risale ai primi anni '90. L'accordo è stato apprezzato dalla comunità internazionale come un passo storico e positivo nella direzione di assicurare la pace e la stabilità nei Balcani. La soddisfazione è stata ancora maggiore tra i membri della NATO e dell'Unione Europea, in quanto hanno percepito l'accordo come un mezzo per assicurare l'orientamento filo-occidentale di Skopje e ridurre al minimo l'influenza russa nell'ex Repubblica jugoslava di Macedonia. Secondo l'accordo, i due firmatari hanno accettato reciprocamente che il nome ufficiale della FYROM sarà la “Repubblica della Macedonia settentrionale“ ("Nord Macedonia" in breve). Il nuovo nome si rifletterà nello statuto del Paese (che è stato modificato per questo scopo) e sarà usato da tutto il mondo.
A settembre, per il terzo anno di seguito, sono stato invitato a Ohrid al Marshall Center Security Forum organizzato con la cooperazione del NATO Headquarters per discutere di sicurezza nei Balcani e del futuro di Skopje in relazione alla probabile richiesta di adesione sia alla NATO sia all’UE. L’atmosfera che si respirava era positiva, ma nei fatti il referendum confermativo non è andato come il governo centrale si attendeva e si è dovuto ricorrere a “artifizi” parlamentari per ratificare l’accordo.
A sorpresa, il risultato del referendum in Macedonia, nel quale hanno votato meno del 37% degli aventi diritto (di questi oltre il 90% ha votato “Si”) è stato che, non essendo stato raggiunto il quorum del 50% più uno, la votazione è stata considerata nulla.
Tale risultato ha complicato il percorso d’integrazione euro-atlantica dell’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia. Il primo ministro macedone Zoran Zaev riteneva, sostenuto dall’ONU, di aver ricevuto un chiaro mandato per proseguire sulla strada intrapresa per una maggiore integrazione con l’Occidente, attraverso un buon accordo di “vicinato” con Atene. “Il referendum è deciso da coloro che vogliono decidere” e “i cittadini ci hanno dato un messaggio molto chiaro”, aveva dichiarato Zaev.
Il Segretario dell’ONU Antonio Gutierres ha subito chiesto, in modo convinto, a tutte le forze politiche del Paese di dare seguito al referendum (anche senza quorum), poiché: “L’ONU resta disponibile a fornire tutto il sostegno necessario alla soluzione di questo dossier”. Il Commissario europeo per l’allargamento Johannes Hahn, commentando su Twitter l’esito del referendum, aveva lanciato un segnale alle opposizioni di Zaev, in vista del prossimo passaggio parlamentare: “
In estrema sintesi, entro il 2018 Zaev è, comunque, riuscito a trovare una maggioranza in parlamento e ad approvare la variante costituzionale di cambio del nome. Per Skopje ora il problema passa ad Atene.
Di questi giorni, è la notizia che la Grecia è ora pronta a intraprendere la fase finale di ratifica soprattutto dopo che il primo ministro, Alexis Tsipras, è “sopravvissuto” ad un voto di fiducia in materia in parlamento. L'accordo, che conclude quasi tre decenni di controversie tra i due Paesi, sarà messo ai voti dai parlamentari greci nelle prossime settimane. Di queste ore la cronaca che ad Atene le opposizioni nazionaliste stanno violentemente protestando contro le decisioni di Tsipras.
La Grecia ha nel passato posto il veto all'adesione della Macedonia alla NATO e all'UE, sostenendo che il nome della nazione prevalentemente slava equivaleva all'appropriazione culturale della storia antica greca e trasmetteva ambizioni territoriali verso la sua provincia della Macedonia.
Al momento, un’interpretazione della situazione è semplice. Si deve andare avanti e concludere per dare un significato all’impegno delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea degli USA e della NATO. Un mancato accordo/ratifica ''sul filo di lana” sarebbe un fallimento epocale della diplomazia occidentale e una vittoria della politica russa che ha da sempre osteggiato tale accordo.
Mosca contrasta l’accordo, perché prodromico alle richieste macedoni di adesione a UE e NATO e quindi ulteriore, anche se piccolo, allargamento dell’Alleanza.
Ankara, che ha una buona presenza di popolazione turca nel Paese, sa che Skopje nell’UE si allontanerebbe come partner commerciale e soprattutto è cosciente che mentre oggi è irragionevole pure pensare ad una Turchia membro dell’UE, la Nord Macedonia ha molti meno problemi a diventarne membro”.
Ancora una volta è la Macedonia a essere al centro dei problemi balcanici, la regione rischia instabilità?
"La Macedonia è grande quanto il Piemonte e ha la metà della popolazione di Roma. Indubbiamente è la “porta” dei Balcani per le provenienze da sud ed è molto cambiata dalla prima volta che sono stato sul suo territorio nel 1999 e riveste strategicamente una buona importanza per l’area; ma da qui a dichiarare che ne sia il “centro” sarei cauto. Ho passato più di tre anni della mia vita tra Albania, Kossovo, Bosnia e Macedonia e tuttora collaboro con le università di Tirana e Pristina e le assicuro che la regione è lontana dal raggiungere una stabilità.
Oggi, oltre ai problemi etnico–religiosi, è in aumento la corruzione e le interferenze al processo di stabilizzazione di Russia, Turchia e alcuni paesi del golfo arabico.
Focalizzando sulla Nord Macedonia di domani, ricordo che ha un grosso problema di foreign fighters di ritorno.
L’Extremism Research Forum, edito in April 2018, nel parlare della Macedonia indica che all'inizio del 2018, il numero di combattenti stranieri maschi che hanno lasciato il paese per il SIRAQ era di circa 140. Inoltre, alla fine del 2017, 33 combattenti stranieri erano già stati uccisi e 80 erano ritornati in Macedonia (il secondo più alto numero di rimpatriati nei Balcani occidentali).
La minaccia derivante dal ritorno dei combattenti stranieri in Macedonia e il problema dell'estremismo violento in generale continua a essere elevato.
Nonostante, nel tempo, i flussi di combattenti stranieri provenienti dalla Macedonia siano stati nella fascia medio-bassa rispetto ai suoi vicini dei Balcani occidentali, vi è una tendenza particolare nella saturazione della radicalizzazione all'interno della popolazione musulmana.
Con la percentuale di 1 su 4.545 - o 22 persone su 100.000 - la Macedonia ha il più alto livello pro capite di combattenti stranieri provenienti dalla popolazione musulmana in tutti i Balcani occidentali.
I rimpatriati macedoni rappresentano una seria minaccia, anche se non intendono intraprendere attività terroristiche, infatti, possono "avviare o impegnarsi in cellule logistiche, finanziarie o di reclutamento o diventare leader nelle società estremiste". Nel contesto macedone, la ricerca ha indicato una prossima cessazione dei flussi di combattenti stranieri in Siria e in Iraq, ma un aumento della simpatia e della diffusione d’ideologie estremiste e la minaccia, più a lungo termine, è la continua propagazione delle loro credenze estremiste.
Tornando alla domanda se la regione rischia l’instabilità, la risposta è: “Sì, la regione continua a essere instabile” tanto è vero che in Kossovo la NATO non prende neppure in considerazione la fine delle operazioni di KFOR.
A mio parere, quindi, è più il Kossovo che la Nord Macedonia a essere al “centro” dei problemi della regione balcanica.
Il generale Cuoci nel lasciare il comando di KFOR lo scorso ottobre ha ribadito che: “La situazione generale del Kosovo è stabile, ma ancora fragile. All’indomani del conflitto, KFOR era presente con 55 mila uomini; ora, dopo quasi vent’anni e col miglioramento delle istituzioni locali, sono poco più di 4mila. Sono cambiate le condizioni sul terreno: gli incidenti inter-etnici sono diminuiti ….”. "Ciononostante ci sono ancora sfide da affrontare che impongono la presenza militare. La Risoluzione dell’ONU 1244 ancora prevede una situazione di “frozen conflict” tra Serbia e Kosovo e purtroppo, malgrado le buone intenzioni, non ci sono stati passi significativi in questo senso". "Inoltre, la situazione economica è precaria: un elevato tasso di disoccupazione (oltre il 35% della popolazione) e il 65% di chi non ha lavoro sono giovani di età compresa fra i 25 ed i 35 anni. Ritengo che la sfida più grande e più importante sia quella di risollevare l’economia e ciò potrà avvenire solo quando il Kosovo sarà in grado di avere stabilità politica. Recentemente è di attualità la trasformazione delle Kosovo Security Forces in Kosovo Army e questo credo, insieme alla continuazione del dialogo Pristina-Belgrado, sia la questione su cui focalizzarsi".
Anche Russia e Cina intendono imporre le proprie idee, creando non poche reazioni contrastanti.
La regione balcanica è a rischio; potrebbe ripercuotersi sulla situazione dell’Unione europea?
“Come detto in precedenza, la Russia non vede assolutamente positivamente la stabilizzazione nell’area e l’adesione del Montenegro nella NATO, probabilmente seguita da quella della Nord Macedonia, non può essere accettata supinamente da Mosca.
A dimostrazione di quanto appena detto c’è stato il grandioso bagno di folla, con almeno 120 mila persone accorse a salutare davanti alla cattedrale ortodossa di San Sava, la breve ma intensa visita di Vladimir Putin a Belgrado. La visita è durata poche ore, ma che è servita a rafforzare ulteriormente i rapporti, già solidi e stretti, tra Russia e Serbia, principale alleato di Mosca nei Balcani. Quella che ha ricevuto, nei giorni scorsi, il presidente russo a Belgrado è stata un'accoglienza straordinaria e al tempo stesso impensabile in una qualsiasi altra capitale europea. Questo a dimostrazione dell’enorme popolarità di cui godono tra i Serbi la Russia e il leader del Cremlino. Vi è vicinanza spirituale, religiosa e linguistica tra i due Paesi slavi, ma anche una ferma collaborazione politico diplomatica a sostegno dell'integrità territoriale della Serbia, contro l'indipendenza del Kosovo. E, come detto, sono fondamentali per Belgrado le critiche russe all'espansionismo a est della NATO, cosa che la Serbia considera una forma di accerchiamento.
Per quanto ha tratto con la Cina Popolare c’è sicuramente nei Balcani e nell’Europa orientale un attivismo commerciale cinese. Vi è evidenza che il target degli investimenti cinesi nei Balcani (che possono essere considerati anche l’ultimo tratto della “Nuova via della seta” - OBOR) evidenzia una certa predilezione per i Paesi in area d’interesse dell’UE. Contratti per circa 4,9 miliardi di dollari, hanno visto coinvolti cinque membri extra UE, ma fortemente intenzionati a diventarne parte: Albania, Bosnia-Erzegovina, Nord Macedonia, Montenegro e Serbia. Questa contingenza non fa che accrescere i timori di alcuni analisti geopolitici che sono scettici e avvertono pericoli dalla strategia con cui la Cina starebbe cercando di indebolire il mercato unico secondo il principio da qualcuno definito dalla strategia dell’antica Roma “divide et impera”.
Gli Stati Uniti, cioè Trump, hanno un ruolo importante nella gestione del problema?
“Partirei da quanto detto da John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, nell'agosto 2018, parlando dei colloqui sugli scambi territoriali tra Serbia e Kosovo.
“Non escludiamo aggiustamenti territoriali". ... Pensiamo che debbano risolverlo da soli. ".
La dichiarazione di John Bolton minaccia di annullare lo sforzo internazionale di oltre due decadi per raggiungere la pace nei Balcani. In pratica gli USA avrebbero dato il via libera alla Serbia e al Kosovo per accordarsi per il loro territorio come “al mercato”. Per Bolton, lo scambio territoriale ha una logica allettante: “La Serbia e il Kosovo sono in stallo sull'indipendenza di quest'ultima, con i colloqui di normalizzazione condotti dall'Unione europea, che non vanno da nessuna parte; nessuno dei due Paesi può avanzare all'appartenenza all'Unione europea fino a quando non sarà presa in considerazione la situazione di stallo; e ogni Paese ha pezzi di territorio adiacenti popolati dall'altro, cioè serbi o albanesi che preferirebbero vivere tra la loro popolazione affine. Quindi, se le parti possono concordare uno scambio territoriale, come un modo per sbloccare il loro stallo, perché gli Stati Uniti o l'Europa dovrebbero mettersi in mezzo?”.
Per Trump e la sua amministrazione parrebbe possibile un accordo tra Serbia e Kosovo e anche di conseguenza forse con i Serbi di Bosnia, gli Albanesi di Macedonia e praticamente ogni minoranza nella regione. Sfortunatamente, nel caso della Bosnia, a me pare non esistere un modo plausibile per dividere il Paese, senza riaccendere la guerra. Fortemente influenzata dalla Turchia e da altri attori mediorientali, la Bosnia dopo la divisione potrebbe o non potrebbe rimanere laica. Sarebbe quasi certamente senza sbocco sul mare, poiché i Croati del Paese seguirebbero i loro compatrioti serbi nella secessione. Data la percentuale relativamente elevata di reclute dello Stato islamico dalla regione e il fatto che molti di loro sono pronti a tornare, si rischierebbe di creare un potenziale “stato Islamico “ alle porte dell’Europa.
Spero proprio che se questa idea “commerciale”, difficilissima da realizzare, sarà portata avanti, l’Europa unita abbia un ruolo centrale e lavorare insieme agli USA per contenere le conseguenze negative. Ci sono tre condizioni su cui riflettere in caso di uno scambio territoriale. In primo luogo, non ci può essere alcun accordo sullo scambio del territorio del Kosovo fino alla riapertura e alla conclusione dei negoziati sull’accordo di Dayton per la Bosnia. L'UE dovrà, inoltre, anche insistere sul fatto che i cinque membri che non riconoscono il Kosovo lo facciano sulla scia di uno scambio territoriale tra Belgrado e Pristina. Infine, soprattutto i Paesi che appoggeranno la separazione territoriale come un modo per superare i conflitti, devono impegnarsi politicamente, diplomaticamente forse anche militarmente affinché tale procedura non crei ancora più problemi”.
C’è un problema reale e immediato legato al rientro dei FTF (Foreign Terrorist Fighters) dal SIRAQ nei Balcani?
“La relazione tra i Balcani e i FTF non è recente. La stessa ha avuto inizio con le guerre tra etnie scoppiate al collasso dell’ex-Jugoslavia: jihadisti reduci dell’Afghanistan e mussulmani spinti dal desiderio di difendere le minoranze islamiche in Bosnia si sono uniti alle milizie locali e in certi casi, come con il battaglione El Mujahid, in formazioni regolari integrate nelle forze armate bosniache. Dopo gli accordi di Dayton nel 1995 e la fine del conflitto, il governo bosniaco rilasciò passaporti e permessi di soggiorno ai vari combattenti islamisti. Nell’immediatezza della guerra assieme ai foreign fighters giunsero finanziamenti dai Paesi del golfo arabico e dalla Turchia principalmente per la costruzione di scuole e moschee e da lì è seguita diffusione di un’interpretazione salafista e radicale dell’islam. Ad esempio, nelle moschee di Prizren (La città dove la Germania insediò per anni il Centro di Comando per la sua Area di Competenza (AoR DEU) durante le operazioni NATO KFOR in Kossovo) per la preghiera il muezzin “chiama” i fedeli in turco e non in albanese o arabo.
Secondo l’International Center for Counter-Terrorism dell’Aia, (ICCT-the Hauge) il tracollo economico nell’ex Jugoslavia, principalmente in Bosnia Erzegovina e Kossovo, a causa del conflitto, la conseguente povertà, l’alto tasso di criminalità e una popolazione mussulmana numerosa e scontenta, sono state condizioni favorevoli per la radicalizzazione e il reclutamento di nuovi combattenti. Inizialmente, circa la metà di combattenti stranieri giunti per aiutare le minoranze mussulmane nei Balcani sono diventati esportatori di FTF verso il Medioriente, specificatamente nei territori del SIRAQ, intenti a unirsi a gruppi quali ISIS e Al-Nusra.
Un altro dato rilevante è il passato criminale di una buona porzione di questi individui: secondo un report dell’European Institute for Security Studies (EUISS) il 40% dei combattenti provenienti dal Kossovo sono noti alle autorità del loro Paese per crimini già commessi e sentenze scontate in carcere; va rilevato che la cosa è comune per molti combattenti di altri Paesi della regione balcanica.
La radicalizzazione dunque anche nei Balcani ha una connessione con il mondo del crimine, il reclutamento spesso avviene oltre che tramite internet e nelle moschee anche nelle stesse prigioni.
Sempre in uno studio dell’Extremism Research Forum, finanziato dal governo britannico, è riportato che nel periodo che va dal 2012 al 2015, vi è stato un massiccio influsso di FTF dall’area balcanica occidentale (cioè Albania, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro e Serbia) che è andato scemando fino a un tracollo tra il 2016 e il 2017. Secondo il medesimo studio un totale di 878 adulti e di 197 minori sono entranti in Siria e in Iraq partendo dai Balcani; di questi, il 70% tra la fine del 2013 e il 2014, un periodo di alto traffico da e verso la regione. Il seguente tracollo nel 2016 è attribuibile a diversi fattori, in primis il volgersi del conflitto a netto sfavore dell’ISIS a causa dell’intervento sia della Russia sia della fanteria curda, secondariamente per via di legislazioni attuate dai governi della regione atte a criminalizzare i FTF e, infine, per via di un semplice prosciugamento di reclute disponibili e volenterose di partire per il conflitto.
Degli 878 foreign fighters partiti dai Balcani, 300 hanno fatto ritorno secondo le autorità locali, oltre circa 460 individui rimangono in SIRAQ. L’influenza di combattenti esteri radicatasi in aree dei Balcani non fa altro, quindi, che accentuarsi con l’accrescersi del fenomeno negli ultimi anni e va posto l’accento che si tratta di un ritorno di combattenti radicalizzati e addestrati.
In particolare, il minacciato e possibile ritiro delle truppe americane dai territori siriani sotto loro protezione/giurisdizione lascerà fuori possibilità di credibile controllo migliaia di terroristi dell’ISIS e membri delle loro famiglie che ora sono prigionieri nelle carceri nell’area a controllo curdo-americano del Paese. La maggior parte di loro è ricercata dai governi nazionali e se liberi, saranno una nuova ulteriore minaccia per la regione e per tutta l’Europa. Si tratterebbe di più di 2.700 terroristi combattenti che si erano trasferiti nei ranghi di ISIS all'apice della sua espansione territoriale, ma poi catturati sul campo di battaglia o arresi alle forze sostenute dagli USA. Il problema era quello che quasi tutti, se non tutti, i governi che hanno supportato con entusiasmo le operazioni belliche guidate dagli Stati Uniti contro l’ISIS, quando le conquiste dei terroristi stavano minacciando la stabilità globale, si rifiutano di rimpatriare i propri cittadini, motivando la decisione con il rischio che possano diffondere un'ideologia radicale o, forse, radicalizzare altri delinquenti loro seguaci in carcere. L’amministrazione curda locale non vuole la responsabilità di sorvegliare e sfamare così tanti militanti e non ha la capacità di processare terroristi accusati di crimini di guerra e altri abusi. Secondo Abdulkarim Omar, che dirige il dipartimento per gli affari esteri curdo: "È un numero enorme; alcuni di loro sono persone molto pericolose, e vivono in carcere in una zona molto instabile”.
Non è ipotizzabile che Russia e Governo Siriano a guida Assad prendano l’iniziativa e/o l’onere di gestire questi assassini addestrati alla guerriglia. Sarebbe un favore grandissimo all’occidente che li ha “generati” e ora dovrebbe trovarsi a gestirli senza, almeno in Italia, una norma legislativa adeguata.
D’altra parte, esistono diversi tipi di minacce che i FTF rappresentano per lo stato e la comunità internazionale nel suo complesso. Così, per esempio, oltre alla diretta esecuzione di atti terroristici, gli FTF hanno un ruolo speciale nella pianificazione e loro organizzazione, nella formazione di nuovi gruppi terroristici e nel rafforzamento di quelli esistenti, così come nella radicalizzazione e nel reclutamento per la creazione di una rete terroristica.
Inoltre, ciò che costituisce un ulteriore pericolo è il fatto che gruppi esistenti di FTF portano sempre più spesso con sé gruppi di donne e bambini nei Paesi di ex residenza che possono essere stati addestrati e indottrinati dallo stato islamico o da organizzazioni similari.
La sintesi della risposta: ‘’Si c'e' un problema immediato’’!
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