Libertà vo cercando, in Afghanistan
Per ora è impossibile prevedere quando la speranza delle donne afghane troverà conforto, il rispetto dei diritti è ancora un concetto intraducibile
fotografie di: Daniel Papagni
23-11-2018 - Molta parte della società afghana è ancora convinta che la donna non abbia alcun diritto ad esprimere le proprie esigenze, ad essere impiegata in lavori che ama eseguire, a percorrere corsi di studi che vorrebbe scegliere.
Ma non tutte le donne si adeguano a tali negazioni della propria dignità e libertà.
Una ‘’piccola’’ trasformazione ci si presenta, attraversando velocemente le strade di Herat, osservando l'abbigliamento delle donne. Mentre prima vedevamo quasi esclusivamente donne in burka azzurri, come leggeri fantasmi senza voce e pochissimi chador, ora si possono contare sulle dita di una mano i burka, almeno così è parso a noi, mentre sui Lince attraversavamo alcune vie della città.
Le donne camminano per le strade della città vestite con il chador, mostrando una minore insicurezza di sé nel muoversi, nel fermarsi a parlare tra loro e nel guardarsi intorno.
Herat è forse la città che maggiormente in questi ultimi anni è riuscita e compiere passi in avanti…ma ancora molto è da fare.
Non è certo l'abbigliamento a definire se la donna afghana stia ottenendo il dovuto rispetto dalla parte maschile.
Grazie alla collaborazione del contingente italiano impegnato nella missione RS (Resolute Support) attualmente su base brigata Pinerolo, al comando del generale Francesco Bruno, nella base di Herat abbiamo incontrato rappresentanti dell’Associazione artigianale delle donne afghane e con loro anche alcune colleghe dell'Associazione giornaliste di Herat, dalle quali abbiamo avuto informazioni reali sulla situazione delle donne nel loro Paese.
Abbiamo applaudito al loro coraggio, nel voler affrontare questo tema a volto scoperto, permettendo anche di fotografarle, mentre ci illustravano la realtà che ogni giorno la donna afghana deve affrontare.
Ci hanno raggiunto nella base di Herat, per parlare con noi che vogliamo avere informazioni dalla voce delle donne; donne speciali perché lavorano in un settore molto delicato, sotto il controllo del Paese in cui vivono; ma anche di soddisfare il loro desiderio di fare conoscere alla comunità internazionale la vera situazione del mondo femminile afghano.
“La situazione della donna in Afghanistan è ancora poco sicura”, ci dicono quasi in coro.
Poi, una alla volta, per il settore specifico di cui si interessano nei rispettivi giornali e nelle diverse attività lavorative, ci hanno spiegato le difficoltà che ancora si impongono alla loro vita.
Una è giornalista free lance, un’altra fotografa, una terza è manager dell’associazione artigiani di Herat, un’altra dirige la camera di commercio e industria delle donne dell’Ovest del Paese.
Accompagnate da Sayd, direttore generale dell’Associazione artigianale delle donne afghane, che, uomo illuminato, le aiuta e sostiene nella loro battaglia.
Mentre in Herat, come abbiamo accennato, il problema appare meno pesante, nel resto del Paese, che vogliamo ricordare grande quanto due volte l'Italia, con un numero di tribù diffuse sul territorio che supera le centinaia, la società è ancora legata alla ‘’tradizionale cultura’’ contro la libertà della donna, che vive per servire l'uomo.
I pilastri da costruire sono tre, sostengono le nostre interlocutrici: sociale, economico e legislativo.
La famiglia è la base di tutto; la famiglia decide cosa e come deve studiare, perché tuttora non è concesso alla donna scegliere qual corso di studi fare: è il padre a decidere.
L'unica cosa libera che può fare è cucinare, per il proprio marito o per la famiglia. No in giro da sola per fare spese, no vacanze da sola, no viaggi senza il permesso del padre o del fratello o del marito…
Quindi, oltre alla negazione della libertà di scelta, anche l'autonomia finanziaria è negata alla donna.
Il governo non proibisce alle donne di lavorare, ma è dal marito che esse devono essere autorizzate.
E sino ad oggi, non sono numerose le donne impiegate.
Inoltre, colei che ha la fortuna di poter lavorare con il permesso del marito, non riceve il salario nelle proprie mani: il marito lo ritira e lo amministra. Non ha entrate economiche il 64% delle donne afghane.
E uguale limitazione di libertà, per quanto concerne l'attività politica.
Stanno aumentando le donne che si interessano del Paese o della propria regione. Anche nelle ultime elezioni donne in lista hanno ricevuto voti.
Una delle nostre colleghe afghane è stata eletta; ma, a causa dell'imposizione che tuttora persevera nel mondo maschile, non ha avuto il permesso di mettere a frutto il successo elettorale. Se l'uomo di famiglia, padre, fratello o marito che sia non approva, l'eletta non può partecipare all'attività politica o amministrativa della propria regione.
“Sono ancora troppo poche le donne che si impegnano ad ottenere i propri diritti. Le donne, soprattutto coloro che vivono nelle zone rurali, sono ancora succubi della cultura che le vuole sottomesse all'uomo”, sottolinea Elaha “la comunità internazionale sta operando in modo apprezzabile per aiutarci e ne siamo grate; noi stesse siamo fortunate perché abbiamo l'appoggio della famiglia, ma per ora solo circa il 20% delle donne afghane ha acquisito la consapevolezza della propria situazione e della volontà di cambiarla. E per quelle consapevoli, è comunque un percorso difficile, a volte impossibile”.
Considerando il settore economico, Anisa, Regional Manager di Herat, ci fa notare che “Ci sarebbero anche buone opportunità per far uscire le donne dalla sottomissione alla famiglia; ad esempio, la creazione e la conduzione di aziende agricole, che aiuterebbe anche il Paese a uscire dallo stretto legame dell'importazione di frutta e verdura dal Pakistan; il lavoro in campagna servirebbe anche a creare un progresso in ambito ecologico, per la salvaguardia dell'ambiente; le donne sono molto sensibili al rispetto della salute. Ma per ora, solo agli uomini è concesso essere imprenditori agricoli. La pace in Afghanistan arriverà quando le donne saranno indipendenti”.
Sottolineando quanto sia importante la collaborazione da parte della comunità internazionale, per sollecitare cambiamenti nella situazione femminile in Afghanistan, Maryam, fotografa, ci spiega che …su 62 dipartimenti, in Afghanistan, soltanto tre sono caratterizzati dalla presenza delle donne, proprio a causa dello scarso supporto da parte del governo che, tra l’altro, diffonde dati statistici non esatti. La situazione è peggiore di quanto faccia credere il governo.
Per alcune situazioni perduranti, i diciassette anni di presenza della comunità internazionale pare non sia stata efficace: la mafia è presente in modo autorevole.
Questo grave problema, ci dicono le nostre colleghe, impedisce la loro crescita e la determinazione dello status di donna libera.
Alle giornaliste è anche vietato partecipare a seminari o convegni, impedendo loro quindi anche di scriverne, pena l’intervento del giudice.
“Molta responsabilità anche da parte della religione” sottolinea la collega” Quello che dice il Mullah è come legge; ordina un comportamento negativo nei confronti delle donne già dall'età scolare, inculcando negli studenti delle Madrasse condizionamenti che per la vita resteranno come una linea di condotta standard: la donna deve fare ciò che l'uomo pretende”.
Non tutti gli uomini, per fortuna, sottostanno a tale condizionamento.
Parlando con un giovane di Kabul, Amid, 28 anni, avvocato, capiamo che uno spiraglio di luce per la condizione della donna potrebbe anche rivelarsi...ma non subito. Giovani istruiti sono in grado di comprendere che il rispetto dei diritti umani, donne comprese, è fondamentale per la crescita di un Paese.
Ma Kabul, ove egli vive, è una città ancora pericolosa per chi esprima idee di tale portata. Non solo, anche la situazione sociale ed economica è condizionata, soprattutto dalle conoscenze e dalle amicizie.
Nonostante una laurea in legge, egli non ha “santi in paradiso”, non può accedere in modo autonomo ad una propria attività ed è costretto quindi ad adattarsi ad un lavoro qualsiasi, pur di mantenere la famiglia. Quindi, si tratta di una complessità di situazioni che insieme portano la società ad esser ancora sottomessa al potere e al condizionamento al di là delle leggi democratiche.
Kabul, a chi come noi la vede dall'esterno, pare una città in fase di sviluppo.
Grattacieli in costruzione, case e strade illuminate la notte appaiono a chi sorvola la città con l'elicottero che dall'aeroporto ci trasporta al compound nella green zone, ove ha sede il Comando della coalizione delle 41 nazioni impegnate ad aiutare il Paese a trovare conciliazione e governance, nella nuova missione Resolute Support.
Ma all'interno delle case nessuno sa cosa accada.
Ci scrive una amica afghana: Sposata per imposizione della famiglia, dopo 11 mesi di matrimonio, il marito, dedito a droghe, oppio, eroina; spesso ubriaco, mi ha picchiata in modo così terribile che sono andata in coma; voleva che io morissi; ma sono sopravvissuta.
È fuggito, mentre io sono stata in ospedale per un mese. Mi ha lasciata e si è nascosto.
Quando mi sono ristabilita sono tornata da mia madre, che però non era contenta, perché la gente sussurrava che sicuramente avevo qualche difetto, se il marito mi aveva lasciata….
La donna, rifugiata in casa della madre, ha però a che fare con il fratello, che non la vuole "tra i piedi":
Per tutti questi anni, mio fratello ha continuato ad umiliarmi, facendomi soffrire ad ogni minuto della mia vita. Ho dovuto tollerare le sue angherie, perché non avevo nessun posto in cui vivere e nessuna persona che potesse darmi aiuto.
Dopo aver superato un esame, ho potuto trovare un impiego remunerativo nell'ambiente governativo, che mi dava soddisfazione.
Mentre mio fratello insisteva che avrei dovuto sposarmi per lasciargli libera la casa; ma io non avevo altro luogo dove andare…
Allora, nell'osservanza della legge che ancora perdura, il fratello la obbliga a sposare il figlio di un vicino di casa…
La impegna con quel ragazzo, senza aver prima controllato chi fosse e come si comportasse.
E la nostra amica continua: Forse anch'io speravo che fosse un brav’uomo. Ho pregato che lo fosse. Una volta sposata con lui, mi sono resa conto che era anche peggio del marito precedente.
E’ il mio destino di stare con un uomo violento? E’ pazzo, scontroso, si ubriaca con il vino.
Mi tormenta, mi fa del male, mi picchia e mi spezza le mani ed i piedi…
Si appropria il mio stipendio, affila coltelli minacciando di uccidere i miei figli, possiede anche una rivoltella...sto pensando al suicidio…
Se un Afghano pensa e agisce come il giovane Amid da noi incontrato, altri cento non permettono alla moglie di uscire da sola; il compito della donne è fare figli e curare casa e marito.
E, dunque, neppure la moglie dell’Afghano “illuminato” può uscire da sola, perché sarebbe reietta dalla società, ancora aggrovigliata nei meandri di luoghi comuni e pericolosi per la donna.
Il punto fondamentale è la società che a sua volta è formata dalle famiglie.
“Quando l'educazione in famiglia lo consentirà, anche il Paese troverà la propria conciliazione”, afferma il nostro interlocutore.
Ma l'Afghanistan è grande, ha un territorio due volte l'Italia, in cui vivono centinaia di tribù, ognuna con le proprie tradizioni, cultura e idioma.
Famiglie orgogliose della propria tradizione ed autorevole esistenza, spesso in lotta le une con le altre, anche per motivi che a noi, nella nostra epoca moderna, potrebbero apparire futili.
E, soprattutto, ambientate nell’anno 1397, secondo il calendario pakistano, anche se quasi tutti dotati ormai di tablet, cellulari e computer delle ultime generazioni del terzo millennio.
Esercitano il proprio potere su poche o su tante persone, incutendo paure e obbligando a restrizioni della libertà.
E, a sottolineare maggiormente la situazione, ci è stata utile la vista al carcere femminile di Herat, visitato varie volte in passato, quando dirigeva l’istituto il generale Abdul Majid Sadeq
//www.cybernaua.it/news/newsdett.php?idnews=2260
e in seguito la direttrice colonnello Sima Pajman, grazie ai quali fu possibile intervistare alcune donne carcerate, fotografare, riportare le attività all’interno del carcere… //www.cybernaua.it/news/newsdett.php?idnews=4833
Ora, direttore del penitenziario, in cui sono compresi il carcere maschile e quello femminile, è il quarantacinquenne colonnello Nassy Ahmad, che ci ha fermamente impedito di avere alcun contatto con le carcerate, ricevendoci nel suo ufficio, per raccontarci la situazione: 2670 sono le persone nelle carceri, tra cui 126 donne; i crimini vanno dal settore sociale a quello della sicurezza, all’omicidio.
Molti Iraniani reclusi. Le prigioniere possono praticare sport, o imparare attività artigianali o studiare, per poi continuare gli studi una volta uscite dal carcere.
Nel dimenticarsi di presentarci la vicedirettrice, che seduta accanto a noi senza dire una parola, prendeva appunti e registrava tutto quanto veniva detto dal suo “direttore”, si è pure dimenticato di sottolineare gli aiuti sostanziosi che il contingente italiano fornisce periodicamente al carcere di Herat.
Alla nostra richiesta, abbiamo saputo che la direttrice si chiama Taisa Oseni, ma nulla di più, per il prevalere dell’egocentrismo protagonista del direttore.
Donna nell’angolo, come è previsto dalla tradizione.
Tradizione che la comunità internazionale dovrebbe farsi carico di correggere; ma chi ha il coraggio di affrontare questo lato, neppure tanto oscuro, della società afghana? Interpellate alcune associazioni, ci si sente rispondere che il Paese è pericoloso...
Questo è il contesto dalle mille sfaccettature, nel quale la coalizione internazionale compie sforzi enormi, su richiesta del governo afghano, per portare il Paese ad una conciliazione utile per la governance, ma sulla condizione della donna i suggerimenti poco valgono.
Ascoltando persone “illuminate”, Afghani che hanno frequentato la scuola, l’università, che parlano lingue straniere, che frequentano altri Paesi, la situazione in generale pare, per alcuni aspetti, non molto differente da quella che secoli fa incombeva su alcuni di quei 41 Paesi che, ora in coalizione con comando a Kabul, si impegnano per aiutare l’Afghanistan a compiere il processo di trasformazione che molti Afghani sognano; quegli Afghani che dovranno, prima o poi, trovare una terra comune, superare il condizionamento culturale delle tribù, considerare con gli occhi della parità donne e uomini…concetto ancora molto difficile per molti versi e in molti Paesi, un denominatore comune di cui non possiamo prevedere il momento della risoluzione.
Il loro tempo scorre senza tempo, l'anno in cui ora si trovano è il 1397.
Non tutti paiono aver fretta di realizzare il sogno delle donne e degli uomini che abbiamo ascoltato; del resto, un loro detto rivolto a noi che corriamo con l'orologio al polso, come se non ci fosse un domani, dicono: voi avete l'orologio, noi il tempo.
Per ora è impossibile prevedere quando la speranza delle donne troverà conforto.
Inshallah
Maria Clara Mussa
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