Con i rifugiati cristiani in Kurdistan
La guerra è guerra, dice Abouna Yako, ma le azioni aberranti compiute contro i cristiani dimostrano che gli autori di tali atti persecutori sono peggio delle bestie
fotografie di: Daniel Papagni
27-11-2016 - Al termine del nostro viaggio in Iraq, alcuni mesi or sono, prima di ripartire ci recammo nel campo dei rifugiati cristiani in Erbil a salutare abouna (padre) Yako, padre rogazionista italo-iraqeno, che alcuni giorni prima ci aveva accompagnato nella visita della struttura adibita ad accogliere i rifugiati fuggiti da Mosul e dai villaggi vicini.
Un grande campo alle porte di Erbil, capitale della regione del Kurdistan, dove in quel giorno padre Yako aveva appena celebrato la cerimonia della prima comunione per circa 150 bambini.
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Salutammo Yako, promettendogli di ritornare al più presto, per continuare a documentare la storia delle famiglie fuggite dall’orrore di una guerra che ancora continua in Iraq, per testimoniare le difficoltà, le tragedie che povera gente, bambini ed adulti, sta continuando a subire, lontano dalle proprie cose e dalle proprie case, attanagliata nella morsa del Daesh e costretta a subire ogni sorta di atrocità, compresa la persecuzione per coloro che professano la religione cristiana.
Dunque, alcuni giorni or sono, ritornati ad Erbil, per prima cosa ci siamo recati al campo, per incontrare Abouna Yako
Nel campo, accolti da bambini festosi, siamo informati dal personale che abouna Yako non risiede più nel campo, ma ora vive in una struttura poco distante dalla Cittadella, nel centro di Erbil, in una specie di centro commerciale, enorme edificio che potremmo chiamare “multiruolo”, insieme a circa trecento rifugiati.
Accompagnati da Seyed, autista di taxi e ormai nostro amico, raggiungiamo lo stabile attraverso un traffico intenso di auto e di gente che passeggia per la città: è venerdì, giorno festivo per i musulmani; si riversano nelle strade girando da un mercato all’altro, in un allegro, rumoroso e colorato via vai; voci e musiche si sovrappongono, proprio come nei nostri mercatini della domenica.
L’edificio in cui dobbiamo entrare è immenso.
Dalle scale scende abouna Yako. Ci viene incontro e ci abbraccia con gioia, ringraziandoci per aver voluto incontrarlo nuovamente.
“Venite, andiamo su; scusate, ma dovrete fare un bel numero di scale; siamo sistemati agli ultimi piani…ma per fortuna almeno abbiamo questo rifugio”.
E con lui incominciamo a salire innumerevoli gradini, per vari piani, attraversando per prima cosa un enorme spazio dedicato alla vendita di abbigliamento. Una scenografia surreale.
Al terzo ed al quarto piano dello stabile percorriamo corridoi lunghissimi, panni stesi alle pareti ad asciugare; lungo le pareti si aprono porte di mini locali in cui risiedono famiglie di rifugiati. Sono circa trecento le persone ad aver trovato accoglienza in tale edificio, chiamato Le Rocher de Neshtiman, messo a disposizione per i rifugiati della piana di Ninive, dal marzo scorso dal proprietario, un curdo cristiano, Nazar Hana.
Un progetto realizzato dalla ONG francese, l’Oeuvre d’Orient, grazie ad un finanziamento del Centro di Crisi del ministero degli esteri francese.
“I Francesi hanno fatto molto per noi, racconta Yako, sono stati molto generosi. Da parte nostra, abbiamo anche cercato di ristrutturare alcune parti, per migliorare la situazione dei rifugiati che vivono in questo edificio: sino a qualche giorno fa, avevamo anche un ascensore, costruito grazie ad alcuni contributi e con le nostre forze; ma è stato messo fuori uso dalla cattiveria umana che ovunque imperversa; è stato distrutto in pochi giorni.”.
Scambiamo parole con i componenti di alcune famiglie, fuggite da Bartella e da Qaraqosh, le città che da poco tempo sono state liberate dallo stato islamico. Ci raccontano le vicissitudini terribili subìte; ci mostrano video e fotografie: le loro abitazioni distrutte ed incendiate dalla “cattiveria umana”, ci dicono, che non è esclusivamente espressione del Daesh.
Alcuni di loro ci raccontano di aver provato a recarsi a Berthella, a Qaraqosh, per verificare lo stato delle loro case. Ma è stato loro proibito entrare nelle città distrutte, “…per questione di sicurezza, dicono le autorità irachene: residuati bellici esplosivi e cecchini potrebbero rendere pericoloso l’accesso agli abitanti; per ora i permessi sono centellinati. Ed ogni volta che proviamo ad avvicinarci alle città, dobbiamo fare lunghe file di attesa, per ottenere un permesso”.
Di fronte a tanta angoscia, ci sentiamo di promettere loro che faremo di tutto per andare a vedere e riportare loro come è la situazione delle loro città e e vedere cosa sia rimasto delle loro case, delle loro cose…
“La guerra è guerra, insiste padre Yako, ma le azioni aberranti compiute contro i cristiani, dimostrano che questi esseri sono peggio delle bestie; astio e crudeltà, non una casa rimasta intatta, le donne rese schiave e maltrattate…questo è lo stato islamico, questo è Islam”.
Si ritengono “fortunati” i trecento ospiti del Nishtiman; sono per lo più cristiani, ma anche alcune famiglie musulmane vi hanno trovato accoglienza. I tre piani sono a totale loro disposizione, prospicienti sulla piazza di Erbil e permettono loro di trascorre una specie di vita dignitosa; chi si è attrezzato per creare un angolo per la vendita di cose utili alla gestione della vita quotidiana; chi si ingegna al mestiere del parrucchiere….
Dalle ampie vetrate due panorami contrastanti: da un lato la forza e la solidità della cittadella di Erbil, dall’altro la solitudine ed il silenzio del cimitero. Al centro loro, i rifugiati che vivono in mini appartamenti disposti nei lunghi corridoi, vivi per la vivacità dei bambini che giocano e corrono vociando.
Percorrendo il lungo corridoio, abouna Yako ci accompagna sino al piccolo luogo adibito a Cappella, in cui celebra la messa per i suoi fedeli.
Non è facile conservare freddezza di fronte a tale drammatico teatro. Si celebra una messa per invocare la pace tra i popoli, quella pace che i popoli vorrebbero in ogni angolo della terra.
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Ed in questo angolo di terra, a pochi chilometri dalle esplosioni di bombe, di colpi di Ak47 e di fumi neri dei pozzi petroliferi in fiamme, si svolge la battaglia per la ripresa di Mosul, nelle cui case sono asserragliati ancora molti abitanti, vittime delle parti che si contendono la vittoria.
Il nostro amico Seyed musulmano prega con loro durante la messa, rispettando la gestualità dei fedeli cristiani che cantano, sussurrano preghiere; cantano, pregano e sperano insieme. Fanno parte di quel popolo che invoca la pace tra i popoli, la convivenza nell’equilibrio e nel rispetto delle fedi altrui.
I popoli non vogliono la guerra, quei popoli che invece sono costretti ad odiarsi a causa di forze neppure tanto oscure, avide di potere e ingorde di sangue.
Ci scambiamo il segno della pace.
Amin- Shukran
Maria Clara Mussa
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