Nei campi dei rifugiati in Kurdistan, tra polvere, dolore, solidarietà e speranza
Sono fuggiti dalla Siria o dalle regioni conquistate da Daesh. Un'emergenza umanitaria e sanitaria senza precedenti. La nostra testimonianza in tre dei numerosi campi organizzati intorno ad Erbil
fotografie di: Daniel Papagni
08-07-2016 - Atterrati da poco ad Erbil, non facciamo neanche in tempo a disfare i bagagli che il nostro amico curdo, che ci accompagnerà per tutto il nostro periodo di permanenza in Iraq, dopo averci prelevati all’aeroporto ci conduce subito a visitare un campo rifugiati ad Ankawa.
Ci ritroviamo all’ingresso del Campo 2, in cui sono i rifugiati cristiani.
Due giovanissimi Peshmerga, armati di Kalashikov ci fanno entrare senza problemi.
In realtà, sapremo poco dopo, non è così facile entrare nei campi che ospitano i rifugiati.
Ma, oltre alla nostra guida, chi ci accompagna è un capitano Peshmerga fuori servizio, un lasciapassare importante.
Varcato il cancello di rete metallica, esce da un modulo prefabbricato un uomo distinto, dai capelli bianchi. Ci guarda, chiedendoci chi siamo. Ci qualifichiamo come giornalisti italiani. “Giornalisti? – ci dice fissandoci con curiosità – qui non è mai venuto nessun giornalista, siete i benvenuti”.
E' il diacono del campo.
Ci invita subito a prendere un tè nel piccolo ufficio da dove era appena uscito. Sorseggiando il tchai bollente e molto zuccherato, il diacono, anch'egli rifugiato, ci racconta di quando sono scappati dalla loro regione: “diventate musulmani o vi uccidiamo” è stata la minaccia degli uomini del Daesh.
Ci informa che il Campo 2, istituito il 10 aprile del 2015, ospita 1200 famiglie cristiane, circa 7000 persone, provenienti quasi tutti dalla regione di Mosul e dalla piana di Ninive; gente che ha perso tutto ed è stata costretta a fuggire il più rapidamente possibile. “Qui lavorano tutti, ognuno si adopera per contribuire alla vita della collettività – ci tiene a sottolineare – noi cristiani siamo persone operose. Ed è così anche per gli altri campi rifugiati dove vivono i cristiani, solo nella zona di Erbil ve ne sono dieci”.
E’ un campo attrezzato, realizzato con moduli prefabbricati e provvisto di rete fognaria, in cui oltre 200 Peshmerga lavorano a turno per aiutare gli sfollati, assicurando loro una serie di servizi.
La Chiesa locale fornisce giornalmente i pasti ed un minimo di assistenza sanitaria, mentre il WFP (World Food Programme) offre il proprio contributo con due forniture al mese di derrate alimentari.
“Il Presidente Barzani ama i cristiani - ci dice il diacono invitandoci a visitare l’interno del campo – in occasione delle feste di Pasqua e Natale è sempre venuto visitarci”.
La prima cosa che ci sorprende è che tutti gli alloggi hanno i condizionatori. Camminiamo a piedi, le strade sono sterrate, il caldo è forte anche se tira vento.
Ci mostrano la scuola, donata dal Governo italiano, un laboratorio di vestiti tradizionali curdi, un calzolaio, tanti piccoli negozi, empori improvvisati, dove si trovano i prodotti di prima necessità..
Proseguendo il nostro giro sentiamo un forte odore di pane.
Ci avviciniamo ad un forno in cui lavorano alcune persone, tra le quali un Peshmerga in divisa. Ci invitano ad entrare.
Veniamo accolti da grandi sorrisi e, avvolti da un profumo “di casa”, assaggiamo il pane appena sfornato ed ancora caldissimo.
Quindi, più avanti, siamo invitati ad entrare in un locale dove ci sediamo ad un tavolo per assaggiare la loro pizza: uno strato sottile di pasta preparata senza lievito e arricchita da carne speziata, dal sapore tipicamente mediorientale e molto buona.
Alla fine del nostro breve pasto dobbiamo insistere per pagare, perché vorrebbero offrire ciò che abbiamo mangiato.
Veniamo poi accompagnati fino alla chiesa, un grande edificio prefabbricato che si sta svuotando. Ad uscire sono quasi tutte donne, hanno appena terminato di recitare il rosario. Siamo accolti da Abuna (padre) Yako, italo-iracheno fuggito da Qaraqosh, allorché il Daesh ha attaccato il territorio.
I volti delle persone che incrociamo sono quasi tutti sorridenti. Chiediamo il perché.
“Oggi è un giorno di festa – ci risponde padre Yako –da poco centocinquanta bambini hanno fatto la prima comunione”.
La sensazione che ricaviamo è che i rifugiati hanno grande dignità.
Nessuno, neanche i bambini, ci chiede soldi o la penna con cui stiamo prendendo gli appunti sul nostro taccuino.
Tutti gli sfollati che incontriamo hanno un atteggiamento di estrema compostezza e ciò nonostante i pesanti disagi che sono costretti a sopportare. La nostra percezione troverà conferma nelle nostre ulteriori visite in altri due campi.
Il secondo campo nel quale riusciamo ad entrare è quello gestito dalla Fondazione Barzani, sempre nella zona di Ankawa. Anche qui gli alloggi sono tutti di prefabbricati allineati ordinatamente sempre su strade polverose solcate da fossi appena scavati che serviranno di lì a poco ad interrare la rete fognaria.
Questa volta ad accompagnarci è un giovane volontario curdo di origine siriana. Qui sono quasi tutti musulmani, le donne, infatti, hanno il velo sulla testa, ma il viso scoperto.
Ci fermiamo davanti ad una baracca di lamiera dove viene venduta frutta e verdura. Il proprietario è anziano, sorridente, ha perso una gamba nella guerra Iran-Iraq negli anni 80. Gestisce la sua piccola attività con l’aiuto dei suoi familiari con cui scambiamo delle battute cordiali.
Un piccolo gruppo di uomini seduti all’ombra sotto una tettoia che è il prosieguo di una abitazione, ci saluta calorosamente. “Veniamo dalla Siria, siamo qui da due anni - ci dicono – siamo salvi grazie a Dio. Quando è arrivato Daesh ha massacrato tutti. Siamo grati al Presidente Barzani per quanto fa per noi, speriamo sempre di tornare presto a casa”.
Una donna col velo nero ci ferma per invitarci nel suo alloggio, un modulo che ha arredato come una piccola casa “normale”, compreso il condizionatore e i fiori colorati. Anche lei è qui da due anni. Viene da Mosul, ha 70 anni, era un’infermiera, il marito un giudice.
Ha 9 figli, tutti grandi. Uno studia in Ucraina, una figlia lavora da tre anni in Inghilterra. E’ addolorata per le sorti di un suo ragazzo che non è riuscito a fuggire. “Vive a Mosul – ci racconta – viene costretto da Daesh a lavorare senza paga e quando termina il lavoro non può uscire di casa. Abbiamo pochissime notizie. Se viene scoperto a contattarci rischia di essere ucciso”. Ci saluta accennando un sorriso, ma i suoi occhi sono tristi. “Vedete come viviamo, ma qui per molti è il paradiso”.
L’ultimo campo che visitiamo è il Baharka, il secondo gestito dalla fondazione Barzani a 70 chilometri da Erbil. Una realtà circondata dal nulla. Qui i rifugiati prevalentemente musulmani, vivono nelle tende. Una realtà ben diversa rispetto agli altri due campi. Le tende non hanno condizionatori. Non ci sono quindi difese per il caldo torrido dell’estate e il freddo e l’umidità dell’inverno. Anche qui le persone che incontriamo sono tutte estremamente cordiali e dignitose. Un uomo, un maestro di scuola, ci dice che i suoi fratelli sono rimasti a Mosul, ostaggi di Daesh. “So che stanno tentando di andarsene, ma uscire da quell’inferno costa caro. C’è chi ti fa fuggire, ma ti può costare fino a 10.000 dollari”.
Ovunque ed in ogni situazione operano trafficanti di esseri umani.
Forse l’immagine più forte che conserviamo andando via dal campo Baharka è quella dei bambini che si rincorrono in bicicletta e giocano nella polvere. Bambini che invece di chiederci l’elemosina ci invitano a rimanere ancora un po’ insieme a loro.
“Non andatevene, fermatevi a cena con noi”, ci dice più di qualcuno.
Questa emozione rimarrà impressa nel nostro taccuino della memoria, un ricordo indelebile, difficile da cancellare, un ricordo che continueremo a portarci dentro.
Quale sarà il futuro di questi bambini?
Federico N. Manzella
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