Fuga da Kirkuk, sotto il bombardamento del Daesh
Intervista esclusiva con monsignor Yohanna Petros Mouche, la più alta autorità cristiana del Kurdistan, Arcivescovo di Mosul e Kirkuk, Iraq
fotografie di: Daniel Papagni
13-06-2016 - “Sono fuggito solo con i vestiti che avevo addosso, senza prendere nulla. E’ accaduto due anni fa quando l’Isis ha invaso Kirkuk”.
Chi ci parla è Yohanna Petros Mouche, Arcivescovo di Mosul e Kirkuk, la più alta autorità cristiana del Kurdistan che ci riceve negli uffici della Diocesi esattamente alle spalle del primo campo rifugiati gestito dalla fondazione Barzani ad Erbil, nel quartiere di Ankawa.
“Dopo il secondo bombardamento – prosegue l’Arcivescovo - erano fuggiti tutti, sono rimasto solo e, a quel punto, ho pensato: voglio morire qui. La mattina seguente gli attacchi sono proseguiti.
Tra il fumo e la polvere, ho visto tre bambini terrorizzati apparire dal nulla, improvvisamente è arrivata un’altra bomba che li ha centrati in pieno. Sono morti a pochi metri da me”.
Monsignor Mouche smette di parlare per un attimo; è come se i suoi occhi scuri, penetranti, guardassero lontano.
Settantatrè anni ben portati, il volto guarnito da una barba austera che gli da l’autorevolezza del Pastore, dopo la breve pausa torna a fissarmi con sguardo penetrante che, tuttavia, lascia trasparire grande cordialità.
Monsignore, che cosa ha pensato in quei tragici momenti?
“Finiti i bombardamenti ero convinto che l’Isis non avrebbe mai invaso la città. Ho chiamato i Peshmerga affinché mi aiutassero. Poi quando ho visto arrivare i sacerdoti da Mosul mi sono reso conto che sarebbe stato meglio andare via con loro. Era mezzanotte e mezza quando siamo scappati. Mi sono illuso che sarei potuto tornare a Kirkuk dopo pochi giorni. Ho detto ai sacerdoti di aiutare quante più persone potevamo ed è ciò che ci siamo sforzati di fare.
Ho lasciato lì tutto quello che avevo, degli antichi manoscritti delle Sacre Scritture, gli abiti talari…”
Come si sente adesso?
“Il mio desiderio più forte è che questa guerra ingiusta finisca il prima possibile, affinché noi tutti possiamo tornare nelle nostre città, nelle nostre case. Non sappiamo cosa troveremo. Dovremo ricostruire ciò che è stato distrutto. Sarà un lavoro duro e, soprattutto, non sarà facile. Ci serviranno degli aiuti e la protezione dei soldati”.
Crede che allo stato attuale si stia facendo abbastanza?
“Gli sforzi della comunità internazionale sono importanti. Molti sono i paesi che ci aiutano, fra questi c’è l’Italia. Estremamente efficace è il contributo e il sostegno della Conferenza Episcopale. Tuttavia qui siamo in costante emergenza. L’emergenza riguarda i rifugiati”.
Quanti sono i cristiani fuggiti dalle città prese dall’Isis?
“Sono tanti. Solo qui a Erbil, abbiamo circa settemila famiglie, vale a dire oltre 52mila persone. Vivono nei campi-rifugiati in una situazione di grande precarietà. Non hanno lavoro, il loro presente è caratterizzato da stenti e da pesanti disagi, ci rendiamo conto che quanto riusciamo a fare non è mai sufficiente”.
Qual è il problema più grande che vi trovate ad affrontare?
“L’emergenza sanitaria è sicuramente la più grave. Per noi è molto frustrante non poter garantire a tutti le cure mediche necessarie. Non parliamo poi degli interventi chirurgici. I costi sono altissimi, qui non esiste assistenza sanitaria. Abbiamo ottenuto un fondo di 196mila dollari che oramai è quasi esaurito. I contributi della Chiesa, dell’ONU, delle fondazioni, del Governo, sono importanti, ma non bastano mai. I rifugiati continuano a vivere in una condizione di grande disagio, esposti fra l’altro alle intemperie. Dobbiamo fare di più. Dobbiamo ridare loro la speranza di un futuro migliore”.
L’arcivescovo ci congeda dopo averci offerto un tipico caffè curdo e un bicchiere d’acqua. Io e il mio collega Daniel Papagni, senza dircelo abbiamo la sensazione di aver incontrato un uomo forte, di poche parole. Riesco a strappargli l’ultima domanda.
Monsignore, ho notato la croce di metallo che porta al collo…
“E’ la croce di San Pietro, è la cosa più preziosa che ho – ci dice sorridendo mostrandocela meglio con le sue mani forti – me la ha regalata Papa Francesco, a Roma. Grazie per essere venuti fin qui”.
Usciti dal prefabbricato che ospita l’ufficio di Monsignor Mouche rimaniamo colpiti da un canto di bambini che proviene da un capannone a circa trenta metri da noi.
“Sono i fanciulli del catechismo, sono in chiesa, fra pochi giorni riceveranno la Prima Comunione”. Ci dice Padre Majeed Hazem M. Attalla, l’assistente dell’Arcivescovo, nel suo italiano quasi senza accento imparato a Roma.
Il portone della chiesa è socchiuso, il coro è sempre più forte. E’ davvero travolgente. Quella che proviamo è una sensazione molto intensa. Riusciamo a trattenere a fatica la nostra emozione. Il loro canto trasmette una gioia sconfinata e un entusiasmo straordinario. Allo nostra vista in molti ci sorridono. Sono in piedi schierati come soldatini fra i banchi. Hanno le mani giunte in segno di preghiera. Sono diretti da un giovanissimo sacerdote con l’aiuto di una suora e di una catechista laica. La loro voce trasmette un entusiasmo straordinario. I loro occhi innocenti sono felici, sembra che guardino oltre le mura della chiesa, forse, crediamo, verso un mondo senza guerre, verso un mondo di pace.
Successivamente veniamo invitati a visitare la scuola. Anche qui è un complesso di prefabbricati.
Gli studenti che la frequentano sono 450, dalle elementari fino alle superiori, distribuiti in vari turni nel corso della giornata.
“La scuola è per tutti – ci dice il Preside – sia per i cristiani, sia per i musulmani”. L’anno scolastico sta per concludersi, lo percepiamo in pieno dall’atmosfera che si respira.
Alle spalle della diocesi c’è l’edificio più grande, a due piani: è l’università per i rifugiati. Il piccolo ateneo conta più di mille600 iscritti, apprendiamo dal rettore. Due sono le facoltà: Economia (con 9 specializzazione) e Amministrazione e Finanza (con 2 specializzazioni).
E’ tempo di esami, c’è un via vai di studenti. Sono tutti ben vestiti: la maggior parte dei ragazzi indossa delle camicie bianche immacolate, qualcuno, addirittura ha anche la cravatta. Le ragazze vestono in maniera meno omologata, ma estremamente rigorosa, poche gonne, molti pantaloni. Più di qualcuna ha il velo sulla testa, ma con il viso scoperto. Sui loro volti percepiamo, chi più chi meno, quella tensione tipica di chi, in quella fase di vita, deve sostenere una prova, una prova importante.
Federico N. Manzella
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