Mantenere la pace è un lavoro che può essere svolto solo da soldati
L’Italia potrà costituire un centro europeo per la formazione di ''peacekeeper” e le nostre Forze Armate sono una parte della buona reputazione del Paese
fotografie di: Daniel Papagni
03-05-2016 - Dal 21 al 27 aprile scorso, presso il CASD, Centro Alti Studi per la Difesa, a Roma, si è svolto un workshop: “L’evoluzione del peacekeeping, il ruolo dell’Italia” che ha proposto un interessante confronto tra analisti ed esperti dei diversi settori che coinvolgono attività ed impegni di mantenimento della pace ed ha affrontato la complessa e delicata tematica riguardante il rapporto tra attività di peacekeeping e tutela dei diritti umani.
I diversi interventi, succedutisi nella mattinata del 27 aprile scorso, a cui abbiamo avuto occasione di assistere, hanno trattato anche alcuni tra i temi fondamentali connessi alle questioni relative alla violazione dei diritti umani e ai conseguenti riflessi sull’ipotesi di individuazione dei profili di responsabilità, riguardanti sia gli Stati e le Organizzazioni Internazionali, sia i diversi soggetti non governativi come le “Compagnie militari private”.
Coinvolgenti l’attenzione del pubblico sono stati gli aspetti prevalentemente operativi, connessi al dispiegamento degli impegni di mantenimento della pace sulla base del “modello italiano”, con particolare riguardo al ruolo cruciale delle operazioni e dei compiti di polizia, finalizzati alla creazione di una efficace cornice di sicurezza e all’addestramento e formazione delle forze di polizia locale, nei Paesi in cui si svolgono le “missioni di pace”.
Cosiddette “missioni di pace”, (anni fa ne trattammo in un nostro reportage esclusivo dall'Afghanistan)
www.cybernaua.it/photoreportage/reportage.php?idnews=1710
All’opinione pubblica occorrerebbe definire in termini più appropriati, per non provocare giustificabili incomprensioni, in cosa consistono le missioni di pace, nelle quali spesso accade si compiano sacrifici di vite umane.
Molto chiaro è stato l’intervento del generale Marco Bertolini, attuale comandante del COI (Comando Operativo di vertice Interforze), sul tema “mandato e regole di ingaggio nelle operazioni di peacekeeping”, che ha compiuto un excursus “storico” delle attività italiane in missioni di peacekeeping, dalle prime in Libano alle attuali in Afghanistan, in Iraq.
Il generale Bertolini ha osservato che le operazioni di Peace Keeping (che significa mantenimento della pace) per essere tali hanno bisogno di una pace in atto, da mantenere, o almeno di un trattato tra le parti da far rispettare e sono solo una minoranza nel contesto più generale delle operazioni militari del dopoguerra.
“L’uso spesso a sproposito di tale termine, come se potesse rappresentare la totalità delle operazioni, è dovuto soprattutto in Italia all’origine di tali esperienze con l’Operazione in Libano del 1981 che del Peace Keeping è stata un po’ l’antesignana. Si trattava, infatti, effettivamente di un’operazione di pura interposizione, nella quale alle unità militari era riservato un ruolo quasi notarile di controllo del rispetto degli accordi di pace o di tregua tra le parti in guerra. L’abbigliamento stesso dei militari in quell’occasione, con gli elmetti dipinti di bianco, voleva sottolineare quella realtà.
Invece, ad esempio, in Afghanistan non esiste un trattato tra governo afghano e Talebani, in cui l’Italia sia chiamata a operare in un ruolo “terzo”, di interposizione… al contrario, in Afghanistan l’Italia è al fianco del governo afghano ed i soldati non si devono evidenziare nell’ambiente con elmetti e mezzi bianchi, certi della protezione garantita comunque da un trattato da tutti accettato, ma al contrario devono potersi confondere nel paesaggio con le tradizionali tute mimetiche da combattimento, visto che rappresentano un obiettivo per una delle due parti… ed è per questo che in tali situazioni la deterrenza deve potersi trasformare in azione.”
Sono situazioni che devono indurre ad una riflessione, come sottolinea ancora Bertolini:
“L’enfasi attribuita a tale casistica di operazioni “di pace” ha rischiato e rischia di far dimenticare capacità operative delle Forze Armate che sarebbe pazzesco ed anche antistorico abbandonare.
Gioca un suo ruolo in tale contesto una specie di mitologia della fine della storia, impostasi dopo il 2° confitto mondiale, per la quale il progresso e la democrazia (considerata addirittura un bene assoluto da esportare) avrebbe fatto dell’Occidente una sorta di paradiso terrestre, in cui tecnologia, benessere e pace sarebbero stati alla portata di tutti.
Ma oggi non è più così, come vediamo anche solo a poche centinaia di miglia dalle nostre coste, in Libia, o nel Vicino Oriente interessato da una guerra crudele e senza quartiere.”
Quanto alle Regole di Ingaggio (ROE), per il generale non sono norme che abrogano il Diritto Internazionale Bellico.
In Italia le regole sono approvate a livello politico, sulla base delle liste di ROE che vengono elaborate dall’alleanza o a livello tecnico-militare nazionale.
Per Bertolini, comunque, “le ROE non vincolano il diritto all’autodifesa, che deve essere sempre assicurato al militare ed all’unità. E non rappresentano una norma di legge da rispettare ad ogni costo, come c’è spesso la tendenza, pericolosa, ad interpretarle in ambito italiano. Infatti, si deve riconoscere sempre al singolo combattente ed al singolo Comandante ampia libertà di giudizio nel valutare la pericolosità di una situazione, partendo dal presupposto che la sua prospettiva “sul campo” ha più valore, a meno di casi eclatanti, di ricostruzioni successive, magari fatte sulla carta in qualche aula di tribunale, senza considerare il contesto operativo e psicologico nel quale il soldato opera. Ma in questo caso entrano in gioco le sensibilità dei singoli paesi e la rilevanza che negli stessi ha la giurisdizione ordinaria nel giudicare situazioni straordinarie come quelle in esame.
Non sono quasi mai le ROE, infatti, a dimostrare la loro insufficienza. Nel caso italiano, piuttosto, è la co-azione tra il Codice Penale Militare (di Pace o di Guerra, poco cambia) ed il Codice Ordinario. Quest’ultimo, infatti, non è in grado di riconoscere l’eccezionalità della situazione “di combattimento” nella quale operano i militari, ponendo quindi frequenti ostacoli alla loro indispensabile libertà d’azione.”
Quanto all’asserita esistenza di un “metodo italiano”, che preferirebbe il dialogo allo scontro, Bertolini preferisce il riferimento ad un “modo” nazionale, non frutto di ricerche come nel caso del “comprehensive approach” NATO e statunitense, ma di un nostro riflesso culturale.
In Afghanistan, ad esempio, inizialmente si poteva perquisire ed agire senza limiti, anche di notte; poi, si è capito che occorre tener conto delle sensibilità locali, altrimenti da “liberatori”, si rischia di diventare “occupanti”.
Per concludere, dopo alcuni esempi tratti dalle operazioni di questi ultimi anni che evidenziano le difficoltà di un corretto approccio alle operazioni moderne da parte nazionale, Bertolini ha voluto stigmatizzare una tendenza paradossale da parte di chi dovrebbe preoccuparsi della sicurezza dei militari in operazioni.
“Non si tratta di applicare ai militari in operazioni una lista di assurde “regole antinfortunistiche”, come se si trattasse da parte loro di avere a che fare semplicemente con le categorie della negligenza o dell’imperizia, in qualche cantiere di lavoro. Invece, i soldati hanno a che fare con intelligenze, volontà e coraggio finalizzati a contrastarli, ad ucciderli, come è accaduto spessissimo in questi anni. Di questa realtà, la legislazione deve prendere atto, come anche la mentalità di qualche addetto ai lavori.”
Dopo il generale Bertolini, abbiamo ascoltato l’intervento del prof. Antonino Intelisano, Procuratore generale militare emerito alla corte di cassazione, sul tema “L’evoluzione funzionale delle operazioni di peacekeeping nel prisma del diritto penale italiano”, improntato su di una considerazione della questione quasi in termini filosofici, con richiami a Platone ed a Kant.
Intelisano ha ricordato che con l’art. 11 della nostra Costituzione l’Italia ripudia la guerra, ma tale ripudio non prevede una situazione di “neutralità”.
E che siamo inadempienti sul piano formale, ma siamo perfetti nella formazione del personale, tanto che il “sistema italiano” è ben apprezzato dai colleghi stranieri, per modo di interagire con i popoli, con norme che non sono sancite, ma che invece sono oggetto di insegnamento.
“Non ci sono strade, ma i sentieri si formano camminando” ha concluso Intelisano, facendo ben comprendere come l’esempio del sistema Italia sia da tenere in considerazione.
“Il peacekeeping non è un mestiere di soldati, ma può essere svolto solo da soldati”… con tale affermazione il capo di stato maggiore della difesa, generale Claudio Graziano ha posto l’accento sul tema nella giornata, che dà all’Italia la “patente” di centro d’eccellenza.
“L’Italia, se pensiamo agli anni passati, ha avuto funzione corposa e importante” ha ricordato la ministra della difesa Roberta Pinotti, nel concludere il workshop con il proprio intervento.
Gli Italiani hanno iniziato a parlare di peacekeeping a partire dagli anni novanta. Da allora, ha spiegato Pinotti “è cresciuta la consapevolezza di essere diventati adulti, di non poter più essere solo consumatori di sicurezza, ma di doverla produrre, insieme agli alleati”.
L’esigenza di partecipare alla stagione delle missioni militari di supporto alla pace spinse il Paese ad una integrale e consapevole lettura del dettato costituzionale, superando le inibizioni che avevano sempre imposto di fermarsi alle prime parole dell’Articolo 11 della Carta (l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzioni delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali in tal senso).
Pinotti ha sottolineato come al ministro della difesa giapponese ella abbia addirittura suggerito di prendere spunto dal nostro art. 11 della Costituzione, per aggiornare le loro regole.
Gli apprezzamenti da parte dei Paesi con cui l’Italia coopera nelle missioni di pace, possono davvero indurre a pensare che: “L’Italia potrà costituire un centro europeo per la formazione di peacekeeper”, ha concluso la ministra, e le nostre Forze Armate sono una parte della buona reputazione del Paese".
Maria Clara Mussa
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