Welcome in Egypt...(Esclusiva)
Gianluca Panella, noto fotogiornalista, ha realizzato questo reportage con immagini che ci illustrano quanto successo la prima settimana di febbraio 2011
fotografie di: Gianluca Panella
14-03-2011 - Sono riuscito ad arrivare a Il Cairo il 31 gennaio.
Durante la notte, perché i voli subivano continui cambiamenti di orario.
Sentivo dire che i militari non ci avrebbero fatto uscire dall'aeroporto dopo il coprifuoco, ma non era così in realtà.
Le prime difficoltà sono arrivate quando, in auto, incominciammo ad attraversare la città.
Impossibile contare i numerosi checkpoint dei cittadini che, con barricate e armi di ogni genere, controllavano ogni incrocio e fermavano la nostra auto per il controllo del passaporto.
Condividevo l'auto con un collega, con il quale notavo che, ogni volta che ci fermavano, c'erano problemi col nostro autista; insospettiti, abbiamo parlato direttamente con le "guardie cittadine" per scoprire che il nostro autista non era il proprietario dell’auto…..
Ecco perché ad ogni check point venivamo controllati a fondo!
Abbiamo superato circa 30 o più controlli, ma le persone erano gentili e felici di vedere arrivare giornalisti stranieri.
La frase ricorrente era: "welcome in Egypt".
Il Cairo era deserta. Solo gruppi di cittadini che difendevano le loro case armati di asce, sciabole, fucili, bastoni e quant'altro potesse fungere da arma.
Arrivammo nel quartiere di Zamalec a notte inoltrata.
Il giorno dopo, mi son recato in Tahrir Square, per prendere contatto con quei ribelli che erano stati protagonisti di quello che è stato chiamato il “venerdì della collera”.
Nuovamente, gentilezza, gratitudine e senso di sicurezza all'interno della piazza, che era diventata centro logistico e politico della rivoluzione.
Era in corso una manifestazione pacifica, Tahrir Square era gremita di gente che inneggiava alla libertà dal regime dittatoriale di Mubarak.
Slogan antiregime, bandiere egiziane e non mancavano i creativi che avevano quell'energia giusta per fare satira, come ad esempio dei ragazzi che rappresentavano Mubarak con capelli e baffi di Hitler.
La giornata scorreva tranquilla, ma il coprifuoco veniva anticipato alle 17.00. Nessuno se ne curava e si rimaneva in giro fino a buio…
Ma, dopo il tramonto, la città si svuotava, rimaneva solo la piazza che poteva ospitare in sicurezza la gente.
Il 2 febbraio, mentre mi trovavo nella mia camera di hotel a lavorare i files relativi alla manifestazione (anche se i collegamenti internet erano stati sospesi e non avrei potuto trasmettere le immagini in Italia) ricevo un sms del collega, poi diventato amico, Antonio Zambardino: "Sono in Tahrir Square e ho sentito che i pro Mubarak si stanno dirigendo qua…"
Era quello che temevamo da quando eravamo arrivati.
Nel frattempo, avevo saputo che il coprifuoco era stato ancora anticipato ormai al pomeriggio.
Mi son dunque precipitato in strada, ho attraversato il Nilo e, passando davanti al palazzo della Tv di stato, mi son trovato nel bel mezzo del corteo… Sono riuscito a fare degli scatti dei supporters del regime, che mi urlavano in faccia che “Mubarak deve restare”.
Mi son preoccupato di arrivare in testa al corteo, per poterlo superare ed arrivare in piazza prima di loro, per scattare immagini, in quanto era ovvio che ci sarebbero stati degli attriti tra le due fazioni.
E così, riuscito ad arrivare in testa al corteo, praticamente già in Piazza Tahrir, mi son trovato esattamente nel mezzo tra i supporters e gli oppositors, che hanno subito incominciato a lanciare pietre violentemente.
Fortunatamente, avevo appena comprato, da un pony express incontrato per la strada, il suo casco per 200 pound egiziani; indossatolo immediatamente, ho cercato di trovare un posto laterale che mi permettesse di raggiungere gli oppositori; gli unici con i quali mi sentissi al "sicuro".
Gli scontri appena iniziati e diventati molto violenti in brevissimo tempo, son tutti nelle immagini che ho ripreso e che parlano sicuramente meglio di me.
Verso le 17 circa, cinque militari mi hanno preso con la forza: uno di loro mi ha puntato l'arma; con me, un collega giapponese che avevamo tolto dalle mani di una folla inferocita che non aveva capito per chi stesse lavorando.
Ho notato che le persone non concepivano che noi fossimo là semplicemente per testimoniare e non per prendere le difese di qualcuno, quindi era diffuso il sentimento di diffidenza verso i giornalisti.
La realtà delle cose però non si nasconde; quindi divenne automatico che i giornalisti si trovassero dalla parte degli oppositori al regime, in quanto offrivano protezione, acqua e cibo e forse la cosa più importante: una profonda riconoscenza e un profondo rispetto per tutti noi che stavamo raccontando al mondo cosa stesse capitando.
Avevamo saputo che alcuni colleghi erano stati arrestati e quando mi sono trovato nel vicolo circondato dai militari ho temuto a mia volta l'arresto.
Poco più avanti, ho trovato il mio collega nella stessa condizione e ci siamo subito chiesti cosa stesse succedendo; i militari non ci facevano rientrare in piazza per la nostra "sicurezza" e ci obbligavano quindi a uscire dal quartiere attraverso una folla di sostenitori del regime che chiudevano la strada...
Si stava già manifestando intolleranza verso i giornalisti stranieri che venivano accusati di complottare contro il regime. Abbiamo espresso la nostra paura di attraversare quella folla che già si dimostrava molto ostile nei nostri confronti, ma a loro non interessava: noi dovevamo uscire da là.
Un ragazzo egiziano, che parlava bene l'italiano, ci ha assicurato che ci avrebbe accompagnato fuori dalla zona a rischio. Abbiamo chiesto più volte di essere lasciati liberi di decidere dove stare e che quel passaggio avrebbe potuto rivelarsi fatale per noi: i pro Mubarak stavano iniziando a picchiare operatori e fotografi; noi ci sentivamo invece al sicuro in piazza Tahrir.
I militari ce lo impedivano, ci spingevano verso la folla ostile e ci obbligavano ad attraversarla.
Abbiamo rischiato il linciaggio, mentre il nostro casuale accompagnatore cercava di prendere tempo parlando in arabo e urlando che non eravamo giornalisti, ma "fotografi per l'Egitto"
Ma la folla ci minacciava e ci faceva chiari segni con il pollice come per tagliarci la gola, inveendo contro di noi e inseguendoci per qualche centinaia di metri ….che sembrarono interminabili.
Raggiunto il ponte che ci avrebbe fatto attraversare il Nilo, la quiete.
Ce l'avevamo fatta, eravamo stanchi, nervosi.
Saliti in taxi, sentivo calare il livello di adrenalina che mi aveva tanto aiutato durante gli scontri.
Arrivati in hotel mi son precipitato a preparare le immagini da trasmettere, ma la connessione internet ancora non era stata ripristinata.
La mia agenzia non poteva ricevere le immagini di quegli scontri.
Dopo un'intera notte di scontri, il giorno dopo lo scenario era analogo, ma con alte barricate che separavano le due fazioni. Il paesaggio cittadino era letteralmente coperto di pietre.
Ancora scontri e ancora una volta mi son trovato a non saper descrivere l'accaduto se non con le mie foto.
Il 3 febbraio riprendevo la morte di un oppositore per mano di un cecchino. Questo terrorizzava i ribelli, ma dava loro ancora più forza per andare avanti, per credere nella giustezza di quella rivoluzione. Tutti i manifestanti ci ripetevano la stessa cosa: "Mubarak deva andarsene, altrimenti moriremo tutti qua, in strada!"
Al Jazeera era in perenne diretta con riprese dall'alto eseguite dalle finestre dell'hotel Hilton che si affaccia sulla piazza, come l'hotel Semiramis.
Il Marriot Hotel dove alloggiavo, invece era sulla riva opposta del Nilo.
Il 4 febbraio siamo venuti a sapere di arresti dei giornalisti, dei linciaggi di cameraman e operatori e di vari fotografi feriti. Alcuni colleghi raccontavano di servizi segreti che entravano nelle stanze del Semiramis per sequestrare le memory card, controllare le immagini prodotte, togliere gli apparecchi dalle finestre, sequestrare le batterie…
Per tutto il giorno successivo, continuavano ad arrivare giornalisti nel nostro hotel che era più sicuro, con notizie di blitz poco rassicuranti, ma non arrivavano per quel motivo: erano stati cacciati dai due hotel menzionati sopra per non permettere più le riprese sulla piazza e, penso, per piazzare agenti dei servizi.
Al Jazeera veniva soppressa, tacciata di complottismo contro lo stato.
Il Marriot, dove alloggiavano tutti i giornalisti provenienti da ogni parte del mondo, era presidiato dai militari e non potevamo lasciarlo dalle 20.00 alle 8.00.
Anche questo mi preoccupava, non mi piace non potermi muovere come meglio credo.
E non ero il solo a pensarla così.
Il regime, con ancora molti dei suoi poteri, stava riuscendo a metterci paura e voleva impedirci di lavorare facendo puro terrorismo psicologico e penso ci stesse riuscendo: ad esempio alcuni colleghi olandesi volevano lasciare il paese il più presto possibile. Io pensavo al da farsi e non nego di aver temuto almeno due volte per la mia incolumità.
Gianluca Panella
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