Brothers in action (Esclusiva)
Caldo estremo, lunghe distanze da percorrere, stress operativo, sono le condizioni che mettono alla prova i nostri militari in Afghanistan
fotografie di: Daniel Papagni
23-07-2010 - Appena arrivati ad Herat, immersi nella calura dei 50°C del sole di luglio che in Afghanistan non perdona, abbiamo fatto in tempo a ritirare i nostri bagagli, che subito ci siamo messi in attesa di un trasporto per Shindand, la fob in cui avremmo trascorso il giorno seguente, insieme alla task force che affianca e addestra i militari dell'Esercito Afghano.
Trascorsa la notte nell'aeroporto, alle prime luci dell'alba il Ch47F americano ci carica tutti a bordo, giornalisti e militari appena giunti dall'Italia e, con volo tattico, superando a pochi metri da terra il territorio desertico, pieno di insidie, dopo circa 30 minuti ci porta a destinazione.
Il Force Center di Shindand è attualmente sotto il comando del colonnello Giulio Lucia, comandante del 3° reggimento Alpini, della Brigata Taurinense.
Noi siamo affidati al capitano Massimiliano Fassero: "fiero ex membro del battaglione alpini "SUSA"", ci dice accogliendoci e, precisando di esser provvisoriamente prestato all'ufficio di pubblica informazione, ci accompagna nell'aula/tenda in cui la task force ACRT, (Advanced combat engeneer reconaissance team), guastatori capaci di riconoscere gli ordigni, sta conducendo un corso di addestramento, "Brothers in arm", per i militari afgani, per il riconoscimento e l'eliminazione degli ordigni esplosivi (IEDD) che gli insorgenti disseminano lungo i percorsi usati da militari e civili e l'unica strada, la Ringroad, che mette in comunicazione le città.
E' il tenente Vincenzo Ricciardi, del 32° reggimento alpini, che li coordina e che si dice soddisfatto per l'ottimo livello di integrazione tra militari italiani ed afghani. Ed è con il tenente Matteo Grappa che seguiamo i ragazzi nel pattugliamento eseguito dai guastatori, in affiancamento agli afghani, testimoni per la prima volta dell'efficenza del Buffalo, nella versione dedicata alla missione Isaf e battente bandiera italiana
E' un lavoro di pazienza e concentrazione, che viene eseguito in qualsiasi orario, sotto il sole o sotto il cielo stellato, per rendere le strade fruibili dalla popolazione, grata ai suoi soldati e ai nostri, per l'impegno profuso nel cercare di rendere la loro vita più sicura.
Non perdiamo l'occasione di avvicinarci ad alcuni aerei russi, tre Mig21, rimasti a testimonianza di una pagina di storia che ha lasciato il segno e ora messi all'ingresso della fob Lamarmora, a pochi passi dal Force Center di Shindand.
Presi dal susseguirsi delle attività, non ci rendiamo conto che è anche ora di un momento di sosta, che trascorriamo piacevolmente a tavola, a cena, ospiti del comandante Lucia, insieme ai suoi collaboratori, comandanti dei settori logistico ed operativo.
E la notte, che il cielo afghano rende luminosa di stelle e di luna, creando un sentimento struggente, di cui a causa dell'inquinamento luminoso delle nostre città si è persa memoria, si va in perlustrazione con i visori notturni, affiancando la polizia afghana.
Dopo il briefing del maresciallo Giorgio Leoncini, comandante della pattuglia, saliti sui Lince partiamo alla volta della caserma della polizia afghana.
Alla luce delle torce italiani ed afghani consultano la mappa e poi insieme, tre lince e due pick up della polizia, si va sulla strada che dovremo perlustrare.
L'operazione è denominata "Ship", acronimo che unisce Shindand e Police.
Italiani e poliziotti afghani insieme, con lo stesso obiettivo: rendere le strade sicure, affinchè possano essere percorse da tutti, per poter svolgere le normali attività di una vita normale.
Sono le quattro del mattino, quando prendiamo "al volo" un elicottero A412 dell'Air Battalion, task force che opera ad Herat, che ci dà un passaggio.
Due mitraglieri, uno per lato a portellone aperto, si assicurano che il percorso sia "pulito", controllando con visori notturni e canne pronte, nel volo a bassa quota che ci riconduce a Camp Arena. Siamo stanchi, ma è ancora l'adrenalina che ci tiene su, interessati alle operazioni che compiono piloti e fucilieri, sino a quando una scarica di "flare" ci fa sobbalzare sui seggiolini dell'elicottero. E poi ancora una, che riusciamo a riprendere con gli obiettivi.
I trenta minuti di volo ci permettono di rivedere il territorio arido, montuoso, drammatico e affascinante di questa parte della Terra sfiancata dalla guerra. Per poi arrivare nei pressi della base di Herat, intorno alla quale vediamo una serie di piccole fabbriche, a indicare che la vita riprende, o continua comunque, grazie al contributo che ISAF sa dare per restituire forza economica e futuro all'Afghanistan.
Maria Clara Mussa
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