Fuga dall'Afghanistan
La ''missione di pace'' si concluderà con il rientro della coalizione Nato; ne parliamo con Walter Amatobene, presidente della Mondial Express
fotografie di: Walter Amatobene
23-05-2021 - Il ritiro delle truppe della coalizione internazionale, da venti anni impegnata in Afghanistan in “missione di pace”, con l’obiettivo di ristabilire democrazia e libertà nel Paese, è stato deciso dal governo USA e di conseguenza dai Paesi della Nato.
“E’ ora di porre fine a questa lunga guerra” ha dichiarato il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, nel dare la notizia della propria volontà di chiudere il gravoso impegno poco tempo dopo la sua elezione a Presidente.
E ha già stabilito entro quale data avverrà il ritiro: l’11 settembre, il giorno in cui, venti anni fa, la tragedia delle Torri Gemelle ha dato l’impulso alla missione.
Il termine della missione di pace che per venti anni ha visto morire migliaia di civili e di soldati ora, agli occhi di molti analisti, appare come una disfatta, un cedimento della Nato di fronte alla determinazione dei Talebani di mantenere il dominio del Paese.
L’impegno dell’Italia in Afghanistan è incominciato nel 2001, con la missione multinazionale ISAF (International Security Assistance Force”, che si impegnava di difendere Kabul. Poi, nel 2003, su decisione del Consiglio di Sicurezza, il mandato dell'ISAF fu esteso anche al resto dell'Afghanistan.
ISAF, durata dodici anni circa, è terminata nel dicembre 2014, con l’inizio della Resolute Support Mission, in previsione della “Exit Strategy”.
Ed ora che l’Exit si avvera, vogliamo conoscere il parere di coloro che, a capo di aziende italiane impegnate sin dall’inizio, hanno contribuito a sostenere l’impegno della coalizione operativa insieme alle forze armate.
Una delle aziende italiane coinvolte in Afghanistan è la Mondial Express S.r.l. ‘’dal 1989 specialisti in trasporti’ difficili’’, con il cui presidente Walter Amatobene abbiamo avuto un interessante colloquio.
Dr. Amatobene, ci racconti l’esperienza condivisa con le forze della Coalizione in Afghanistan.
“Lavoriamo da molti anni con aziende civili, non solo italiane, fornitrici delle forze armate in missione. Tali aziende hanno contratti con gli enti militari che operano in teatri internazionali e noi ne organizziamo l’arrivo a destinazione.
Questo avviene anche con l’Afghanistan, dal 2005 in poi.
Affrontiamo gli stessi problemi di trasporto e di sicurezza degli enti militari, generati dalla distanze e condividiamo con le aziende nostre clienti le criticità dei tempi di consegna richiesti dai contingenti. Siamo una piccola pedina indiretta della logistica di supporto e ne siamo orgogliosi.
Con le forze armate italiane delle basi e delle FOB (Forward Operation Base) e nei reparti logistici, ho avuto il privilegio di sviluppare relazioni ed amicizie che continuano anche dopo la missione. Ricordo quando abbiamo consegnato l’intero fabbisogno di prefabbricati per la base italiana di Gibuti, dove il mio interlocutore era una giovane capitano del Genio, che aveva il compito di montare le strutture. Con lei dialogavamo da colleghi ed insieme a lei sono stato coinvolto, anche emotivamente, nello stress delle tempistiche.
Il mio corrispondente di Gibuti era parte della squadra. Lo stesso è avvenuto per alcune grandi garritte acquistate dai Frances iper la loro base gibutina.
Si tratta di collaborazioni che si ripetono puntualmente in ogni punto del mondo. A Gibuti, in particolare, dal mio sopralluogo nella grande area ‘’inghiaiata’’ si è passati ai prefabbricati montati in 10 settimane grazie alla nostra puntualità e capacità logistica al porto. E’ stata una grande soddisfazione”.
Con i vostri camion, che tipo di materiali avete trasportato in Afghanistan?
“I materiali sono i più vari: prefabbricati, hangar smontati, ricambistica per le strutture civili (condizionatori, infissi, sanitari etc) che i nostri clienti hanno nei campi, vetri blindati, garitte, materiali edìli, grossi generatori e infine prodotti alimentari con camion frigo anche per le ONG presenti sul territorio.
I mezzi affrontano lunghi viaggi: il transito avviene via Turchia, Adzebaijan, Turkmenistan, fino ad Herat o Kabul, per 18/20 giorni in strada attraverso l’Asia Europea. Da 16 mesi è obbligatorio effettuare cambi di motrice a Baku, Turkmenbashi e Turgundi, per il rispetto dei divieti di ingresso agli stranieri ai confini, dovuti al Covid. Ogni giorno, più volte al giorno, siamo in contatto con gli autisti, che seguiamo anche con il GPS”.
Ora sarete coinvolti nel ‘’trasloco’’ dei materiali usati dal contingente d’italiano durante la missione?
“Non di quelli militari, che hanno una gestione diretta. Noi ci stiamo occupando di quelli dei nostri clienti che hanno le strutture di manutenzione e assistenza in quel Paese. Si tratta di svariati metri cubi di materiale di ogni tipo.
Lo stop quasi improvviso della missione americana ha generato, ad esempio, il rientro di alcuni camion già in viaggio.
La logistica del rientro dei materiali militari italiani, invece, come sempre, sappiamo che viaggerà da Herat agli Emirati con un ponte aereo fatto da giganteschi Antonov o Ilyushin76, che caricano fino a 15 tonnellate a viaggio.
I materiali saranno trasferiti in porto e imbarcati su navi appositamente noleggiate che attraccheranno nel punto più vicino alle Brigate di destinazione. In questo ultimo rientro, le quantità militari sono minori, ma l’Italia ne ha gestiti altri due, Itaca 1 e Itaca 2, come vennero chiamate le operazioni dove c’erano chilometri lineari di materiali, tra ruotati e containers.
Da spedizioniere, stimo molto la logistica militare da e per le missioni estere, coordinata dal Coi, a livello di Stato Maggiore Difesa che detiene un patrimonio di conoscenze e capacità eccezionali. Gli ufficiali coordinatori e la sottostante organizzazione agiscono come una grande ed efficientissima casa di spedizioni.
Immaginate quanti problemi genera un trasporto militare su distanze così grandi, con materiali “sensibili” e con problemi geopolitici che impediscono di trovare la strada più agevole. Vorrei ricordare anche come sia difficile garantire ad ogni militare in missione cibo, ricambi, munizioni, infrastrutture, veicoli, fino alla più piccola FOB sul terreno.
Per questo, ritengo che uno dei patrimoni più importanti ed utili di queste missioni sia l’eccellente capacità logistica che le Forze Amate italiane hanno saputo sviluppare. Si parla di noi logisti solo quando qualcosa non arriva in tempo. Il rimanente 99,9 per cento dello sforzo è semplicemente “routine””.
Quali rischi avete corso nella vostra attività di ‘’specialisti in trasporti difficili’’?
“I nostri camion verso Iraq e Afghanistan viaggiano per via terrestre e talvolta i nostri agenti sul posto devono provvedere ad effettuare scorte con personale civile, anche per motivi assicurativi. I trasporti via mare vengono presi in carico dai nostri agenti nei porti di Um Qasr, Mombasa, Dakar, Beirut, Hodeidah (ora chiuso) Port Sudan etc. e poi ricaricati per le consegne ai destinatari, a volte anche ad oltre 1500 chilometri di distanza, in un altro Stato non servito da un porto.
Quando consegnavamo a Mosul, a 14 chilometri dal fronte, o quando percorriamo i 1400 chilometri che da Dakar portano in Mali, oppure da Tunisi verso Mopti (Mali), o quando consegnamo containers in Mozambico, all’interno del Paese i nostri camion attraversano aree a volte anche pericolose. Viaggiano in convoglio con i colleghi e di notte adottano accorgimenti che mi ricordano in alcuni casi il far west.
Nel 2019, un camion diretto a Bassora, Iraq, proveniente dall’Italia, è capitato nel mezzo di un conflitto a fuoco ad uno dei tanti check point sulla strada, da cui si è rapidamente allontanato, ma con il telone crivellato da 13 colpi, nella parte alta, senza danni al carico, in quel caso.
I rischi sono legati alle turbolenze del Paese in cui si viaggia e il successo della consegna deriva da una conoscenza dei luoghi e delle problematiche doganali, non secondarie.
Ogni Paese ha i propri vincoli e ogni transito potrebbe rivelarsi un problema, a volte anche per le richieste dei funzionari doganali.
In Aprile, partita dall’Italia è attraccata a Mombasa una nave che trasporta alcuni veicoli destinati a Kampala in Uganda, per il ministero della difesa. Sono equipaggiati con costose attrezzature per analisi batteriologiche, chimiche, il cui costo supera il milione di euro cadauno.
In questi casi abbiamo dovuto scegliere accuratamente autisti e scorte e adottare specifiche cautele.
I 1500 chilometri sono stati percorsi in 4 giorni, viaggiando solo con la luce del giorno.
Tra gli episodi recenti di pericolo, cito l’ultimo, accaduto proprio in Afghanistan, che è il focus del vostro articolo, capitato il 13 Febbraio.
Quel giorno, avevamo due camion a Turgundi, al confine tra Turkmenistan ed Afghanistan destinati ad Herat ed uno ad Islām Qala, punto di ingresso dall’Iran, che aveva a bordo macchinari tessili usati per una ONG.
Quel giorno a Islām Qala sono esplose centinaia di cisterne provenienti dall’Iran. Non si conosce la causa che ha scatenato le esplosioni di oltre 300 veicoli, ma è facile immaginarla. Il nostro autista era a poche centinaia di metri e ci ha inviato in tempo reale una foto del gigantesco rogo. Immediatamente dopo, c’è stata l’irruzione delle forze armate afghane e si temeva che si potesse ripetere un secondo attentato suicida, come di solito fanno i talebani, quando arrivano i soccorsi.
Gli autisti sono ovviamente disarmati ed ognuno di loro poteva essere considerato ostaggio.
Contemporaneamente a Turgundi, che è a circa 90 chilometri e che separa il Turkmenistan dall’Afghanistan, si è creata una situazione di grande agitazione, con le forze afghane in allarme e molto irritabili perché temevano che potesse esserci un attacco gemello, come era già accaduto in passato. Ogni autista quindi veniva considerato un potenziale pericolo; per due giorni, sono avvenute perquisizioni e controlli esasperanti dei documenti e dei veicoli.
In quei Paesi, la minaccia è reale e le forze armate hanno sempre “il dito sul grilletto”. Basta un gesto di insofferenza o di nervosismo e può accadere la tragedia. Inoltre, le strade di montagna per raggiungere il passo turkmeno sono tortuose, disabitate e quindi luogo ideale per rapine o attentati. Per questo i camion viaggiano in convoglio per una specie di autoprotezione.
Altri gravi rischi li corrono gli autisti afghani che “agganciano” il semirimorchio per portarlo da Turgundi ad Herat o Kabul: i talebani minacciano di ucciderli perché collaborano con le forze occidentali”.
Alcuni anni fa, fummo testimoni della sigla tra Italia e Afghanistan di un progetto chiamato la ‘’strada del marmo’’, che prevedeva l’uso di marmo pregiato afghano della zona di Chest El Sharif, da lavorare in Italia;
//www.cybernaua.it/news/newsdett.php?idnews=2845 il trasporto era considerato difficile; la sua azienda fu impegnata in tale progetto?
“Ci siamo occupati anche del trasporto di marmo da Chest El Sharif, una cittadina a circa 130 chilometri est di Herat.
Erano 2000 tonnellate di lastre di una qualità pregiata chiamata "laser 2000", stivate su cavalletti di legno, che venivano trasbordate a Islām Qala e da lì, attraversando la Turchia, arrivavano ad una grande azienda vicentina.
In quel caso, dovemmo rinforzare i cavalletti di legno prodotti nella cava, grazie all'intervento del nostro agente sul posto, per dare maggiore stabilità al carico. Ancora una volta abbiamo contato su una filiera logistica affiatata ed esperta. Al confine con l'Iran, il carico passava su camion iraniani o turchi. Tredici giorni di viaggio in totale.
Si trattò dell'unico contratto commerciale tra una azienda afghana ed una italiana che ne avrebbe dovuto trarre qualche vantaggio economico reale.
In quel caso, la sicurezza delle strade era garantita dai contingenti italiani che controllavano il territorio.
La zona è rapidamente tornata sotto controllo talebano e l'azienda italiana ha sospeso il programma di collaborazione, che prevedeva l'invio di macchinari più moderni per la lavorazione del marmo per ottenere un prodotto più standardizzato. La sicurezza è sempre stata un problema in quell'area: ricordo che alcuni autisti si rifiutarono di caricare”.
L’esperienza maturata in Afghanistan è stata ripercorsa anche in altri scenari di crisi internazionali?
“Consegnamo regolarmente in Iraq, Yemen, Somalia, Uganda, Mozambico, Gibuti, Shama (Libano) Kosovo, Libia, Mali.
A breve partirà un grosso lotto per il Bamako (Mali), dove un nostro cliente dovrà rifornire un campo delle Nazioni Unite.
Nel 2017, fino al 2018, abbiamo caricato e consegnato senza un graffio 198 camion per la diga di Mosul, con materiali provenienti da Italia, Turchia, Francia destinati al cantiere della diga.
In ogni Paese dove i nostri clienti impiantano un’attività, Mondial Express li affianca, compiendo sopralluoghi e verificando ogni transito, dal punto di vista sia doganale che logistico. Siamo orgogliosi di dire che molti clienti hanno ricevuto i complimenti dai destinatari, comprese le nazioni Unite, grazie ad una pianificazione che ha consentito il rispetto dei tempi, senza danni”.
Pensa di poter tornare in Afghanistan un giorno come libero cittadino?
“Certo! Per il mio lavoro ho avuto il privilegio di viaggiare in tanti Paesi considerati “a rischio”, ma che in fondo non lo erano al livello che si crede in Italia. Tornerò in Afghanistan, a maggior ragione se ci sarà un periodo di ricostruzione, che potrebbe attrarre anche aziende europee, nonostante la vicinanza culturale di quel Paese all’Iran. Sono rimasto colpito dalla bellezza dei luoghi, dalla moschea di Herat, dalle loro montagne.
I sorvoli fatti in elicottero mi parlano di un Paese affascinante. Ho visto villaggi costruiti ordinatamente con paglia e fango e bambini al fiume che ci salutavano col sorriso. Gli autisti e gli operai del mio corrispondente di Herat, i suoi figli, i loro familiari, mi hanno accolto come un amico. Sono leali negli affari, come lo sono altri popoli di quell’area dell’Asia, come gli Iraniani. Sono persone orgogliose e forti. I loro bambini vengono istruiti dagli anziani che sono anche le persone più importanti nei villaggi. Non sono l’unico che vorrebbe conoscere i segreti della invincibilità del popolo afghano. Durante un viaggio, ho incontrato a Farah un ricercatore italiano, Gastone Breccia, ospite dello Stato Maggiore della Difesa nella base italiana, che stava raccogliendo materiale diventato poi il libro “L’Arte della guerriglia”, colpito anche lui dalla invincibilità di quel popolo. Il titolo fa capire la resilienza e la forza di quella gente. Le poche migliaia di talebani hanno oscurato le qualità di un intero popolo”.
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